L’io sento
Sento dunque sono? Leggiamo cosa dice Louis Agassiz a proposito dei neri americani nella seconda metà dell’ottocento in una lettera alla moglie (His life and corrispondence, Luis Agassiz, 1893): “Tutti gli inservienti del mio albergo erano uomini di colore. Mi è difficile descriverti la penosa sensazione che questi mi hanno suscitato, specie perché il sentimento che mi ispiravano è contrario a qualsiasi principio di fratellanza del genere umano e di origine unica della nostra specie. Ma la verità prima di tutto. Ho provato pietà alla vista di questa razza degradata e degenerata e, al pensiero che si trattasse di uomini, ho sentito per loro una grande compassione. Tuttavia mi è impossibile reprimere la sensazione che essi non siano dello stesso nostro sangue. Vedendo le loro facce nere, le loro labbra carnose, i loro denti, la loro capigliatura lanosa, le loro ginocchia storte, le loro lunghe mani con grandi unghie curve , e specialmente il livido colore delle palme, non potevo staccare gli occhi dai loro volti e ordinare loro di stare lontani da me. E quando allungavano quella mano ripugnante verso il mio piatto per servirmi, avrei voluto scappare lontano a mangiare un pezzo di pane piuttosto che cenare con un tale servizio. Che infelice scelta per la razza bianca aver legato, in certi paesi, la propria esistenza a quella dei negri! Dio ci salvi da un tale contatto!”.
Agassiz, chi era costui? Naturalista americano della seconda metà dell’ottocento Agassiz è un importante studioso di pesci fossili, protetto dal “Grande” Cuvier, il fondatore della paleontologia. Agassiz lasciò la nativa Svizzera per far carriera in America “in quanto europeo famoso ed affascinante” (come ce lo presenta il paleontologo evoluzionista Syephen J. Gould nel suo libro Il pollice del Panda, 1980).
Come il suo ispiratore Cuvier, Agassiz fu uno strenuo difensore della teoria creazionista di contro alla teoria evoluzionista darwiniana. Citato e riconosciuto all’epoca come “scienziato” non ha perso neppure oggi tale appellativo. Ciò che sono intenzionato a fare non è certo entrare in polemica per smentire tesi (il fissismo) ridicolizzate nei fatti dalla stessa scienza, ma entrare più profondamente nell’analisi del brano sopracitato in quello che superficialmente, troppo superficialmente, viene definito “animo umano”, per trarne poi insegnamenti sulla sua “natura”, appunto “la natura umana”. Un termine quanto mai ambiguo usato in tutte le epoche con grande superficialità nella falsa sicurezza che con esso fosse noto l’oggetto da indagare.
Tutti o quasi oggi etichetterebbero l’autore del brano in questione con una pronto giudizio: razzista. La mia tesi sarà scoprire le origini del razzismo e dimostrare che Agassiz non solo non si pensava razzista, ma che era un uomo intellettualmente onesto. Dimostrare altresì quanto sia errata la definizione di scienziato attribuita fino ai giorni nostri di personaggi che vengono definiti tali solo perché si occupano di scienza alla stessa maniera con cui si definiscono filosofi coloro che si laureano o insegnano filosofia.
Scusate la digressione e torniamo senz’altro al brano sopra citato. Dalla lettera (sconvolgente) che cosa principalmente si evince? Si evince che il giudizio sul mondo è a partire dalla propria emotività, dice Agassiz “il sentimento che mi ispiravano”, senza avvedersi di prendere la propria emotività, ovvero “come io sento e percepisco il mondo” a metro e verità dell’essere: il metro con cui io andrò a giudicare il mondo. Guardando dentro a se stesso, alle proprie emozioni, Agassiz con grande onestà intellettuale si sente in dovere di contraddire i propri principi “di fratellanza del genere umano e di origine unica della nostra specie”. “Ma – afferma Agassiz – la verità prima di tutto”.
Che cos’è per Agassiz la verità?: l’io sento. Prendere per vero ciò che la propria anima a se stesso con grande travaglio interiore confessa. Non si avvede minimamente che il proprio modo di sentire è solo il suo personale modo di sentire e lo trova vero tanto più che questo va contro i suoi principi, ispirati da sentimenti cristiani di compassione: “ma la verità prima di tutto”. Agassiz riconosce nell’ io sento, il massimo della soggettività, quell’oggettività che eliminando l’ideologia (l’ideale di fratellanza e di un’unica specie) lo riconduce in buona fede a un “atteggiamento da scienziato” che non lascia che le proprie aspirazioni ideologiche pur emotivamente fondate (compassione e pietà) possano turbare o negare quella verità che i sensi gli offrono che sono il suo modo di vedere la verità. Per i ‘negri’ prova pietà e compassione, ma non lascia che questi sentimenti neghino l’evidenza, dove l’evidenza, ob torto collo, è quello che la realtà mostra attraverso i suoi personalissimi sentimenti.
Questo atteggiamento si può riassumere in due paradigmi: io sono quello che sento (l’io sento) e ciò che sento è la verità. Da questa monade, “l’io sento”, con cui il giudizio di valore di tutta la realtà viene determinato come vero, pochissimi fuggono. L’ io sento, secondo cui é vero ciò che sento, l’unificazione tra realtà e verità all’interno dell’io costituisce per ciascuno la “visione del mondo” e la con-fusione tra realtà e verità. Da questa gabbia che ci unisce e isola a un tempo, da questa gabbia che siamo noi nel senso più proprio, sia superficiale che profondo, partono tutte le nostre considerazioni sociali, politiche, filosofiche. L’ io sento fa da filtro alla realtà e giudica come vere solo quelle proposizioni che compiacciono allo spirito.
Di questa gabbia nessuno o pochissimi hanno coscienza. Da questo autoinganno pochissimi fuggono. La quasi totalità degli umani, compreso il lettore, così come Agassiz (nota bene definito come scienziato) confonde la propria visione del mondo con la verità dell’essere, molti come Agassiz addirittura a livello addirittura epidermico “ Vedendo le loro facce nere, le loro labbra carnose, i loro denti, la loro capigliatura lanosa, le loro ginocchia storte, le loro lunghe mani con grandi unghie curve e specialmente il livido colore delle palme, non potevo staccare gli occhi dai loro volti e ordinare loro di stare lontani da me”.
Dal suo epidermico sentire, infanzia dell’umanità, l’io sento vede, respira e giudica: lo fanno tutti, compreso tu che stai leggendo. La paura, l’orrore, la fobia del diverso è la patologia più diffusa tra gli umani. In ciascuno il bambino giudica il mondo a partire dall’ io sento. Le fobie e le antipatie o simpatie sono per la stragrande maggioranza della gente ancora il tramite della conoscenza e il modo di relazionarsi al mondo. Se a questo si aggiungono i pregiudizi, cliché del sentire comune che operano nel “grege” si ha il panorama del sociale nella sua patologia.
La stragrande maggioranza degli individui è parlata dalla lingua e dalla mancata evoluzione dell’ io in una più ragionevole condivisa visione della realtà, ovvero la maggior parte degli individui, lasciata a se stessa senza un’educazione sentimentale, non raggiunge mai l’età adulta, indulgia in uno stato mentale nel quale considera il proprio personale modo si sentire come metro oggettivo di valutazione. Ci si rivolge al sé in maniera acritica in una postura resistiva in difesa costante dell’io nella paura di perdere la personalità.
La realtà esterna giunge come conflittuale obbligando a un cambiamento forzoso.
Le convinzioni emotivamente fondate tendono alla conservazione. La resistenza al cambiamento costringe l’individuo a ingoiare la realtà e a forzarla all’interno del proprie convinzioni a partire dall’io sento. Il bambino cui è mancata l’educazione sentimentale conserva nell’età adulta, il nucleo emotivo legato al principio dello “è vero quello che sento” e nella mancata maturazione dello spirito riversa sul sociale tutte le sue manchevolezze qualsiasi ruolo vada a rivestire anche quello riconosciuto di scienziato, filosofo o politico.
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