Eguaglianza e meritocrazia

Domanda. Se volgiamo lo sguardo al presente, un dilemma assilla da tempo coloro che hanno a cuore la cosa pubblica e il buon governo e che  può riassumersi nella seguente domanda: come può accadere che in regime di democrazia possa essere selezionata una classe dirigente con responsabilità di governo politico, economico e culturale, incompetente ed eticamente infondata? Degrado ed inefficienza delle istituzioni, allontanamento dalla politica, smarrimento dell’identità nazionale fondata sui principi costituzionali, atrofia dell’individuo nel cinismo e nell’egoismo, sono tutti sintomi del malessere di un Paese incompiuto e di una popolazione  non ancora coesa, un non-ancora-popolo.  Il quadro è reso ancor più preoccupante se riferito alle nuove generazioni, tendenzialmente private del loro futuro e bloccate in un’immobilità sociale.  Emerge così la necessità di ripensare e rifondare una formazione del cittadino, in particolare di coloro che erediteranno le responsabilità di governo, e della formazione delle future generazioni, a partire da una cultura   fondata su una solioda etica. Quale dunque l’etica di una buona classe dirigente?

Risposta. Dopo il fuoco e la ruota altre due fasi cruciali hanno segnato l’evoluzione umana:  la formazione dell’ individuo e la costituzione dello Stato.  Al principio d’individuazione ha concorso in modo determinante il Cristianesimo, per il secondo  si è dovuto attendere altri 14 secoli e l’affacciarsi del pensiero scientifico.

Ora, la libertà nasce quando l’uomo è capace di astrarre da sé si forma una propria coscienza, costituendo un ente sopra le parti rispetto al quale tutti gli individui  si rapportano e in questo rapporto possono riconoscere la prorpia eguaglianza.  Non siamo dunque uguali, ma fratelli: questo l’insegnamento  fondamentale del Cristo filosofo, anche se l’ente terzo in quel caso era costituito da un Dio creatore, del quale gli uomini erano l’immagine. La coscienza di sè, in sè e per sè, per un’altra coscienza di sè: questo l’insegnamento di Hegel.

Domanda.  Ma se siamo uguali pur tra le innumerevoli diversità dei singoli  individui, cosa può renderci felici?  Quali compiti affidiamo  all’organizzazione sociale e allo Stato perchè    regoli la nostra convivenza? Quale etica e responsabilità richiediamo a coloro che saranno incaricati di  governare tale organizzazione?

Risposta. C’è un aspetto del carattere degli italiani che gli stranieri percepiscono subito  e che valutano in modo ambivalente, a volte apprezzandolo come espressione della creatività e del piacere di vivere, altre volte come inattendibilità dei comportamenti. Si tratta della mancanza di professionalità. Non intendo qui la professionalità come la competenza tecnica in un determinato mestiere, per altro riconosciuta in molti settori, ma  come il rapporto particolare che l’individuo mostra con il proprio ruolo e che alla fin fine si  riduce nel come  svolge  il proprio lavoro.  Si tratta di quel  rapporto esistente tra  il comportamento dell’individuo e l’etica che connota la cultura del gruppo di appartenenza.   Oltre al  ‘fai la cosa giusta’, vale  il  ‘fai la cosa bene’.

Recentemente ha avuto successo il risultato di una ricerca sociale secondo la quale l’infelicità che sembra essersi diffusa tra i cittadini delle ricche società  occidentali sia da mettere in correlazione  con la disparità della distribuzione della ricchezza. In altre parole, si sarebbe dimostrato scientificamente (sic!) che non si può essere felici se si è circondati dalla povertà.

L’eguaglianza comporta che la società dia a tutti gli individui la pari opportunità per esprimere e valorizzare i propri talenti. In questo quadro riconoscere il merito significa gratificare l’individuo nella sua specifica personalità e quindi renderlo appagato. Ma le pari opportunità comportano l’assicurazione di un livello minimo di benessere comune a tutti (welfare state), perché esiste una povertà assoluta che è intollerabile, in relazione ai bisogni e ai diritti, ed un povertà relativa che è accettabile nella misura in cui è  contenibile.

Il problema non è dunque accettare o rifiutare la disuguaglianza  nella ricchezza, purchè questa sia lecitamente  prodotta, ma di garantire che la sua distribuzione sia fondata esclusivamente sulle capacità e sul merito e che l’eccedenza intollerabile di ricchezza concentrata in pochi individui, pericolosa  come ogni concentrazione di potere o d’informazione,  possa essere redistribuita alle nuove generazioni per  restituire loro le pari opportunità.

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