Un recente rapporto sulla ricchezza nel mondo ha confermato che il nostro paese è non solo una nazione di grandi risparmiatori, ma soprattutto di grandi proprietari di case: il tasso di proprietà ha superato l’80% (un primato Europeo); 260 mila dollari di ricchezza procapite per adulto, 3/5 della quale derivata dagli immobili, con incrementi nell’ultimo decennio di dieci punti percentuali.
Questa realtà, secondo alcuni nostri politici, avrebbe consentito all’Italia di arginare le perdite dovute alla crisi dei mercati finanziari perdurante da quattro anni; mentre, a fronte di una mancata crescita dell’economia in atto da almeno dieci anni, il debito pubblico italiano aumentava inesorabilmente da oltre venti anni, insinuandoci oggi la colpa per aver vissuto al di sopra delle proprie possibilità. Così secondo gli analisti economici.
Senza nulla togliere ai meriti delle analisi economiche e finanziarie prodotte sul tema, qui vorrei comprendere non tanto la ‘razionalità delle scelte economiche’, quanto le ragioni più profonde che le guidano. La questione che pongo in generale è se si possono spiegare i fatti economici con le sole regole dell’economia o, in altre parole, cosa rimane della economia se ad essa viene sottratta l’analisi del pensiero e del comportamento umano, propria della filosofia, della psicologia, della sociologia, dell’antropologia e della biologia (si veda la ‘Neuroecomics’ di Robert Shiller e George Akerlof) . Nel caso italiano, in particolare, mi chiedo se la particolare propensione al risparmio e la scelta di un investimento prevalentemente immobiliare costituisca una “anomalia” di una ipotetica variante italiana della specie homo oeconomicus, se paragonata ad altre varianti europee o americana.
Nell’attività economica è possibile riconoscere le tre categorie dei produttori, dei distributori e dei consumatori, con la considerazione generale però che se produttori e distributori cosituiscono componenti specializzate della popolazione, i consumatori ne costituiscono la totalità. Qual è dunque la razionalità di chi ha inventato i “prodotti finanziari” quali per esempio gli hedge found, i subprime o i derivati? Si tratta della medesima razionalità che ha guidato l’attività delle Banche o influenzato le scelte operate dagli investitori o dai risparmiatori? La mia ipotesi è: esistono diversi modi razionali, dipendenti ognuno dalle diverse mentalità presenti negli individui, a loro volta derivate dalle culture prevalenti in un determinato paese e periodo.
La specie Homo sapiens – sapiens oggi vivente sul nostro pianeta con 7 miliardi di esemplari è apparsa 250 mila anni fa (2500 secoli fa) e a tutt’oggi conserva inalterato il volume del cervello originario, a fronte dei progressi straordinari del suo comportamento specifico, che globalmente definiamo cultura: la Caccia, l’Agricoltura, l’Arte, la Religione, la Scrittura … la Filosofia, lo Stato, il Diritto, l’Industria, la Scienza, la Tecnologia …
Le culture che da millenni hanno formato le popolazioni e che oggi ancora formano le mentalità di ogni individuo attraverso l’educazione tramandata per almeno 10 mila generzioni, sono sostanzialmente descrivibili secondo phyla culturali della caccia, riferita al corpo, contadina, riferita alla terra, artigianale, riferita alla materia e commerciale, riferita al denaro.
A queste forme culturali, che con diverse intensità convivono in ogni individuo in un mix derivante dalla sua appartenenza ad un determinato popolo e al suo livello d’istruzione ed educazione, sono corrisposte quindi mentalità che si sono affrancate su valori fondanti un’etica quali, rispettivamente, il valore della consanguineità legato al gruppo di appartenenza, il valore del sacrificio legato al lavoro, il valore della creatività legato all’ingegno e il valore della ricchezza legato all’individualità.
Se disponiamo su un asse temporale le principali trasformazioni culturali avvenute nella storia dell’uomo (i progressi della cultura precedentemente elencati), esse ci appaiono caratterizzate da una crescente incidenza dal fattore velocità. Da almeno 6 secoli assistiamo ad un’accellerazione culturale travolgente, se paragonati ai precedenti 2496 secoli. Tale accellerazione, che peraltro è correlabile all’aumento della popolazione, ha fatto la differenza fra le popolazioni del pianeta e, intra ogni popolazione, fra le categorie sociali costituenti.
Se guardiamo ora, su scala minore, la storia del nostro Paese (a 150 anni dalla sua Unità), possiamo osservare che, per esempio, l’industrializzazione in Italia, iniziata nei primi anni del ‘900 e interrotta con le due guerre mondiali, si realizza a partire dagli anni ’50, con la ricostruzione di un paese distrutto dalla guerra.
La velocità con cui in Italia si è prodotta la ricchezza su base industriale, in particolare nelle regioni del Nord e del Centro a partire dagli anni ’60, non ha favorito uno sviluppo armonico del benessere della societa’ e una diffusione altrettanto veloce di una cultura moderna che fosse adeguata alle nuove esigenze. Ma quali sono le nuove esigenze di un’economia che dopo le due guerre mondiali è diventata essa stessa mondiale?
Le nuove domande poste oggi dalla “globalizzazione dei mercati” possono essere derivabili dal fatto che i modi di produzione, le merci e le informazioni circolano nel mondo con maggiore velocità e libertà di quanto circolino le persone; mentre le persone ancora circolano nel mondo solo se spinte dalla necessità della ricerca di un lavoro (e per interventi militari) o mosse dal piacere, per turismo.
La famiglia italiana, sia essa composta da contadini, artigiani, professionisti, imprenditori, lavoratori dipendenti, si è così trovata nell’arco di una generazione a possedere una nuova ricchezza da amministrare. La risposta al che fare di quella ricchezza non poteva che provenire dalla mentalità in quel momento prevalentemente posseduta e sedimentata dai secoli più recenti, quella contadina, in forza della quale il sogno della proprietà della terra è stato sostituito con la più realistica possibilità della prorpietà del metro quadro: la prima casa, un appartamento al mare, in montagna, il box, la villetta, la villa, la tenuta …
E’ pur vero che la prima utilizzazione della ricchezza in tal senso ha soddisfatto un bisogno reale e concreto, quello dell’abitazione, ma come spiegare la coazione a ripetere dell’accumulo degli investimenti in altri immobili?
Si è sostenuto e ancora si sostiene che “il mattone” sia, alla fin fine, l’investimento più sicuro. Ciò potrebbe apparire singolare se si riflettesse sul fatto che una delle cause della crisi finanziaria in corso è stata la speculazione finanziaria legata al mercato immobiliare. Il fenomeno della “bolla immobiliare” è nato negli USA (ma si è poi diffuso rapidamnete anche in Europa) dove per sostenere il circuito Denaro – Denaro, i nuovi mercati finanziari (la finanza creativa) hanno richiesto una mobilità degli investimenti che fosse liberata dai vincoli economici, che coinvolgesse gli Stati e le Istituzioni pubbliche (debito pubblico) e che fosse più veloce nelle transazioni. Di conseguenza, l’acquisto della casa come bene è stato sostituito dall’acquisto dei mutui come investimento, seguendone quindi la volatilità.
Lo stile di vita americano, che si rifà alla loro originaria mentalità pioneristica, si è sempre caratterizzato per una elevata mobilità interna (oggi negli Usa si misura la crisi adottando come indicatore la sua riduzione, stimata a -40% ) sicchè in quel paese la casa viene concepita come uno strumento di vita, un mezzo, piuttosto che un asset (negli Usa non si acquistano “metri quadri”, ma unità abitative già corredate dei servizi fondamentali). I frequenti cambiamneti di abitazione nell’arco dell’esistenza di un individuo sono resi possibili dalle facili acquisizioni di mutui, basati sul credito.
Da noi in Italia, invece, per una famiglia culturalmente radicata alla propria terra d’origine (oggi si preferisce usare il termine più ideologico di ‘territorio’) l’abitazione costituisce un fine e materializza la ricchezza risparmiata attraverso sacrifici col proprio lavoro. E la ” prima casa” il più delle volte è anche l’ultima, ma non l’unica.
Al primato italiano in Europa del risparmio che diventa investimento immobiliare, si aggiungono altri tratti peculiari della nostra economia, che ne condizionano negativamente lo sviluppo: una struttura industriale fondata sulla piccola e media industria, una proprietà delle aziende prevalentemente a carattere familiare e una elevata circolazione del denaro liquido. Anche queste caratteristiche sono spiegabili riconducendo l’analisi sul piano culturale, non economico.
Per secoli la storia d’Italia è stata una storia di invasioni, spesso richieste dai poteri locali (la Chiesa di Roma), di divisioni politiche territoriali (Comuni, Signorie) in assenza di uno Stato con funzione regolatrice, di sviluppi economici a livello locale basati sulle abilità artigianali e a livello internazionale sui prestiti e i commerci (le Banche, le Repubbliche marinare). E’ possibile intravedere in questo quadro le radici culturali della frammentazione territoriale in piccole e medie attività produttive, del passaggio da padre in figlio dei mestieri e delle proprietà, della diffidenza verso le istituzioni “terze” e del ricorso al possesso ed uso diretto del denaro.
L’assenza di grandi eventi unificanti a partecipazione internazionale, come per esempio sono state le guerre e il colonialismo, ha favorito da un lato la distribuzione territoriale di modeste economie e limitato dall’altro lo sviluppo e l’intensificazione della produzione attraverso la creazione delle grandi industrie (trasformazione di materie prime, armamenti, cantieri navali, ferrovie, strade e infrastrutture in genere).
L’Unità d’Italia si è costituita proprio sulla politica di Cavour volta al riconoscimento internazionale dello Stato nascente, per sedersi al tavolo di grandi. L‘interventismo nella ‘Grande Guerra’ , l’aspirazione di Mussolini ad un Impero coloniale e la scelta italiana per l’Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale (Trattati di Roma) sono state scelte culturali che ci confermano la continuità di questa politica.
Uscire dall’Euro significherebbe per noi oggi, al di là dei danni economici, cancellare l’Unità d’Italia e regredire così a situazioni di inconsistenza politica che ci condurrebbero nuovamente ai margini del mondo.