La cortina di ferro del XXI secolo
Una nuova forma di mal d’Africa si propaga nel mondo. Non è la nostalgia per il continente, ma il ritorno al colonialismo nella versione aggiornata di una guerra fredda tra le potenze globali, questa volta tre: Cina, Russia e Stati Uniti.
Il flusso migratorio che si dirige verso l’Europa proveniente dall’Africa attraversa il Sahel, una fascia di territorio colpita dalla desertificazione causata dai mutamenti climatici e dalla conseguente grave crisi alimentare, che si estende dall’oceano Atlantico al Mar Rosso. Su questa area considerata come frontiera da presidiare per controllare la migrazione si è recentemente concentrata l’attenzione politica (e militare) di alcuni stati europei quali la Francia, la Germania e l’Italia. Il Sahel rappresenta per l’Europa il suo orizzonte degli eventi, ma la visione limitata rischia di oscurare l’origine del fenomeno: gli spazi di là da quella siepe non sono interminati e occupati da sovrumani silenzi.
La mappa odierna dell’Africa mostra una realtà ormai consolidata che vede da anni le tre grandi potenze globali sempre più vicine e disposte a confrontarsi: la Cina presente economicamente e militarmente nei paesi del Corno d’Africa e che estende la propria influenza verso ovest e verso sud, la Russia impegnata in missioni diplomatiche nei paesi sub-sahariani per stabilire relazioni economiche e commerciali (vendita armamenti) per contrastare la Cina e gli Stati Uniti, gli Stati Uniti presenti sia economicamente che militarmente.
Le ragioni dell’attrazione per l’Africa da parte delle grandi potenze non sono umanitarie (anche se in alcuni casi così si presentano e talvolta anche operato come n nella recente epidemia di ebola), alcune sono note: le risorse minerarie (titanio, cobalto, radio, rame, tantalio, uranio, petrolio, gas naturale, piombo, zinco, carbone, stagno, oro, diamanti, amianto, bauxite, cromo,…); altre meno note: l’uso agricolo del territorio per importare prodotti alimentari (vedi il caso della Cina). Tutto questo sarebbe sufficiente a far capire quali siano gli enormi interessi in gioco e a quali rischi di conflitto siamo tutti nel mondo esposti.
Eppure i paesi europei, preoccupati dalla crisi del proprio benessere e confusa dalle paure diffuse nelle proprie popolazioni, mostrano con la politica agita attraverso i partiti e vari movimenti cecità e ignavia. L’immigrazione viene considerata come variabile indipendente rispetto alla quale la politica e la sua propaganda si conformano, e si appiattiscono. Definita da alcuni come una nefasta e minacciosa invasione da respingere, da altri come una opportunità e risorsa economica da accogliere. L’immigrazione detta l’agenda delle crisi di governi.
Alcuni analisti e osservatori ci avvisano che si tratta di un fenomeno epocale spingendosi ad individuarne le cause nello sviluppo demografico e nella condizione di povertà che caratterizzano il continente africano. Tuttavia, sono ancora pochi quelli che uscendo dalla facile posizione politicamente corretta del soccorso umanitario mostrano l’onestà intellettuale di connettere i fattori in gioco al fine di delineare un quadro generale della situazione: i) in Africa si sta ricostituendo una nuova cortina di ferro tra le tre più grandi potenze, tra loro in competizione per un nuovo ordine mondiale; ii) le guerre nei territori sub-sahariani, ancorché generate dalle condizioni di sottosviluppo culturale ed economico locali, sono manifestazioni su scala ridotta della politica con altri mezzi perpetuata delle grandi potenze per esorcizzare un conflitto armato diretto, dalle conseguenze incontrollabili.
Nulla di nuovo, si dirà, dopo l’infinita crisi mediorientale e quella petrolifera nel Golfo, ma certamente molto più preoccupante se sommata alle crisi in atto sul confine Europa-Baltico Russia, tra le due Coree e nei mari Cinese e Giapponese. Una volta si diceva “pensare globalmente e agire localmente” e oggi? Come si può pensare di affrontare il problema dei flussi migratori (variabile dipendente) senza avere conoscenza e consapevolezza di quanto sta accadendo su scala planetaria? I singoli Stati europei poco o nulla potranno fare se non diventare Europa, quarta potenza mondiale, a meno di non voler arroccarsi dentro i propri confini per mantenere il più possibile il benessere raggiunto.
In tema di immigrazione è diventato lessico comune tra le sinistre e le destre parlare di “piano Marshall” (espressione che le sinistre traducono con “interventi umanitari” e le destre con “aiutiamoli a casa loro”), ma forse non è sufficientemente chiaro che per rimediare alle immense sofferenze dei migranti africani non basterà l’accoglienza, occorreranno lacrime e sangue (dopo Marshall anche Churchill è tornato di moda): enormi investimenti a governi locali autonomi (mld di € all’anno, per almeno un decennio) e presenza militare per garantirne l’utilizzo e la sicurezza locale.