Dalla scorsa estate si è diffusa la convinzione tra politologi e politici, tanto a sinistra quanto a destra, secondo la quale la politica nel nostro paese avrebbe abdicato non tanto in favore di un ‘governo tecnico’, quanto in favore dell’ingerenza di stati stranieri, ancorchè europei, nelle scelte nazionali.
La Grecia tentò di rispondere alle pressioni europee con la proposta di coinvolgere il popolo perchè si esprimesse con un referendum sulle misure economiche da prendere, la Spagna scelse la strada di nuove elezioni, mentre il Governo italiano, con l’accordo delle opposizioni, scelse invece di ritirarsi nel Parlamento.
Si invoca ancora una volta l’unità politica europea, deprecandone la mancanza quale causa dell’incapacità di fronteggiare con efficacia la crisi economica in atto, ma la persistente divisione tra gli Stati si mostra in realtà ancora utile e comoda per scaricare le responsabilità secondo il principio del Deus vult!
Quando il Governo Berlusconi gettò davvero la spugna? Quando di ritorno da Bruxelles il 24 ottobre del 2011 dopo aver ricevuto i primi ‘compiti a casa’, il Presidente del Consiglio dichiarò “Le richieste che ci fanno in Europa sono pesanti, sono onerose sul piano del consenso elettorale, ma sono ineludibili. Vi chiedo quindi un mandato pieno per andare a Bruxelles, altrimenti è inutile che io parta”. Questa dichiarazione esprime una verità, ancora in gran parte taciuta, sul livello della nostra classe dirigente politica. E’ la lingua a parlare per noi rivelando la realtà di una politica incapace di agire perchè ricattata dal consenso elettorale e non, piuttosto, agita in funzione di una visione dell’interesse lontano.
Se vogliamo davvero cambiare, per migliorarci, dobbiamo vederci come siamo davvero, senza alcuna indulgenza.
Dal 1855, sei anni prima dell’Unità d’Italia, siamo affetti da un’ansia di riconoscimento nella politica internazionale. A quel tempo Cavour, avendo il Risorgimento come visione dell’interesse lontano, condusse un’abile politica che portò l’anno seguente il piccolo Regno di Sardegna a sedersi al tavolo dei grandi, in particolare la Francia e la Gran Bretagna, per mettere nell’agenda politica internazionale di allora la liberazione dei territori italiani dall’Austria.
Da allora la nostra politica estera è stata segnata in varie occasioni dalle mutazioni di questo morbo politico che afflligge la crescita del nostro giovane paese e che definirei come la ‘sindrome di Crimea’: le due Guerre Mondiali, tra le quali il colonialismo italiano, la partecipazione militare nei conflitti nei territori dell’ex Juguslavia e nel Medio Oriente.
Ma come agisce la ‘sindrome di Crimea’ nei confronti della Comunità Europea contemporanea? Ancora una volta verrebbe da ricordare la citazione secondo la quale la storia si presenterebbe la prima volta come tragedia, la seconda come farsa. Tuttavia, eliminata la farsa dell’allora Presidente del Consiglio Berlusconi che in occasione di un incontro internazionale al G8 del 2011 avvicinò il Presidente Obama per fargli presente la prioritaria necessità di una riforma della giustizia per la presenza in Italia della da lui supposta “dittaura dei giudici di sinistra”, rimane un atteggiamento politico generale, trasversale agli schieramenti dei partiti, riconducibile a quella tecnica economica che va sotto il nome di leveraged byout, contrastato dal riemergere di un peloso orgoglio nazionale contro i moderni invasori.
In altre parole, l’atteggiamento verso l’Europa si mostra nella sua ambivalenza originaria, ovvero quella di predicare da una parte la costituzione di una comunità politica forte ed unitaria, oltre che monetaria, cui demandare ciò che noi, da noi stessi, non siamo in grado di fare, ma dall’altra di considerare, quasi sperare, l’uscita dall’euro come un’opportunità per uscire dalla nostra crisi.
Sembrerebbe dunque che nella società della percezione la sindrome di Crimea si sia indebolita e prevalga piuttosto una spinta regressiva verso l’isolamento del nostro Paese in una situazione anteriore all’Unità d’Italia, a dispetto della complessità della globalizzazione, in cui ci si possa illudere di essere padroni in casa propria. L’ideologia che oggi sorregge questo pensiero debole discende dalle invettive fasciste contro gli stati plutocratici, dalle analisi comuniste contro l’imperialismo americano e delle multinazionali e, per ultimo, dalle concezioni tribali del territorio sostenute dai leghisti nostrani.