Perfect days: impressioni e sentimenti
Perfect days (2023), da film documentario a film d’arte. Wim Wenders, regista giapponese honoris causa.
Un film di due ore fatto di sguardi e primi piani, una colonna sonora di brani di musica rock anni ’70 collimati alle situazioni, pochi dialoghi, girato in esterni che il protagonista attraversa e guarda con meraviglia (la luce del mattino, gli alberi e la luce che vi filtra tra le foglie), in interni dove il protagonista si muove come un cieco, tanto la sua esistenza è scandita dalla consuetudine. Ci affanniamo a comprendere “chi è”, il suo passato e il suo destino, ma il personaggio Hirayama non ha una dimensione storica, né un profilo psicologico, solo il suo esserci e qualche allusione alla famiglia lasciata (nipote, sorella, padre ricoverato). Prevalgono i rumori d’ambiente (foglie spazzate, auto sui viadotti, lontane sirene) e il silenzio. Eppure, noi per tutto il tempo rimaniamo incantati, empatici, con qualche lacrima di gioia.
La cultura giapponese è fondata su principi e valori della loro tradizione millenaria che non hanno una simmetrica corrispondenza con la nostra occidentale. In più, i giapponesi hanno nel loro linguaggio una parola o locuzione per ogni situazione o sentimento provato. Dunque, per avvicinare la cultura sulla quale questo film è stato realizzato può essere utile avere presente questo glossario minimo:
- il registra usa nell’intervista la parola komorebi che nella lingua giapponese descrive l’immagine della “luce del sole che filtra attraverso il fogliame” (i sogni e le fotografie del protagonista);
- nella tradizione giapponese la parola kodama indica lo spirito che risiede negli alberi (le piantine innaffiate nella casa, gli alberi ammirati e fotografati);
- l’estetica giapponese, quindi la sensibilità della loro visione del mondo, viene descritta, tra altre, con le due locuzioni wabi-sabi, traducibile come “la bellezza imperfetta, impermanente e incompleta” e ichi-go, ichi-e traducibile con “natura irripetibile di un momento”, “solo per questa volta” o “una volta nella vita”.
Hirayama è sconosciuto e invisibile, ma non a tutti, perché il vagabondo danzante nella folla, anch’egli invisibile, lo osserva e lo saluta e il bambino trascinato per mano dalla madre si volta per sorridergli. Le sue giornate trascorrono nella ripetizione degli stessi gesti, ogni volta vissuti con meraviglia, gravitando attorno alla Sky Tree Tower, che domina l’immensa metropoli di Tokyo come un gigantesco totem. Perché e di cosa meravigliarsi e godere? Della vita, dell’unica vita che abbiamo: “adesso è adesso” e “la prossima volta è la prossima volta”. E poi, i giapponesi hanno un adagio: “continuare è potere”.
Presentazione del libro “La singolarità Giappone”
Sabato 4 novembre presenterò al Museo d’Arte Orientale E. Chiossone di Genova la seconda edizione (di prossima uscita) del mio libro “La singolarità Giappone” all’interno della rassegna letteraria dal titolo “Yomimono: leggere al Museo Chiossone e non solo” La manifestazione è stata promossa in occasione di “Genova Capitale del Libro 2023”.
Nel libro sono inserite le illustrazioni di otto xilografie di Giovanni Berio, in arte “Ligustro”, noto in Giappone come l’ultimo incisore del periodo Edo: “Un geniale stampatore di Ukiyo-e di Genova ritenuto la reincarnazione di Hokusai”
Una delle illustrazioni nel libro
La democrazia statistica
Roberto Calasso nel suo ultimo libro “L’innominabile attuale” osserva che “a distanza di un secolo esatto si è passati dal dadaismo al dataismo, da Dada a Big Data”. Ricordando che Dada “fu il momento della sconnessione universale, rivendicata e perseguita attraverso una sistematica abrasione del significato”, mentre il dataismo “è il momento della connessione coatta che sopprime tutto ciò che le sfugge e dove ogni soggetto diventa un fiero e irrilevante soldatino di silicio in un esercito di cui tutti ignorano dove si trovi – e se vi sia – lo Stato Maggiore”.
Ebbene, nell’impero dei dati accade che i sondaggi abbiano sostituito gli oroscopi, troppo dipendenti dal cielo. Si dichiara di poter conoscere l’opinione pubblica su ogni argomento per mezzo di rilevazioni statistiche eseguite attraverso contatti telefonici e software dedicati. Dovendo ricercare un equilibrio economico tra costi e benefici le interviste dovranno, però, essere limitate selezionando un “campione” (gli intervistati che accettano l’intervista) da delegare per inferenza (in virtù della loro selezione stratificata per età, genere, istruzione, appartenenze geografica e censuaria) a rappresentare l’opinione dello “universo” (tutta la popolazione). In genere, una base campionaria di circa 1000 (800 – 1200) soggetti è ritenuta necessaria e sufficiente a rappresentare l’intera popolazione. Ormai con l’ossessivo uso dei sondaggi da parte dei mass media tutti si sono convinti della scientificità dei sondaggi e nessuno più si pone il dubbio sul senso di tali consultazioni.
Tuttavia, se prestiamo attenzione alle note che, in caratteri minuscoli, accompagnano gli esiti dei sondaggi, possiamo ancora rilevare la loro inconsistenza. Un esempio per tutti: un recente sondaggio presentato come rubrica settimanale in un TG mostra gli esiti a domande di natura politica e sociale su un argomento di attualità. Tralasciando di commentare la formulazione delle domande e i commenti stessi che accompagnano l’esposizione, si apprende che il campione selezionato era composto da circa 6000 soggetti di cui 1000 rispondenti (dai quali sono state ricavate le percentuali) e 5000 ca. non rispondenti, il che significa che gli esiti riportati in forma percentuale si riferiscono al 17% del campione selezionato. In altri termini, 83% degli intervistati non risponde alle domande rivelando un assenteismo assai superiore a quello che ha contraddistinto, per esempio, la consultazione politica del settembre 2022 che ha registrato il 40% ca. Eppure, così come i politici al governo (44% dei voti ottenuti dal 60% dei votanti, ovvero ca. dal 24% degli italiani aventi diritto al voto) sostengono di rappresentare il volere della “maggioranza degli italiani”, così gli analisti e commentatori sostengono di conoscere il pensiero della popolazione italiana.
La politica “legittimata” dal voto si accompagna al pensiero “rilevato” dal sondaggio.In questi ultimi anni si è costituito un ricco mercato di agenzie di “consulting”, le cui prestazioni sono appaltate dalle istituzioni politiche e governative, che hanno fatto dei sondaggi il proprio “core business” fondendo le ricerche di mercato con i sondaggi politici con l’adozione degli stessi strumenti a testimonianza che la preferenza espressa dal voto per un partito (o quella relativa ad un dato argomento) è uguale a quella per uno yogurt. A ben vedere i sondaggi, parte integrante dei palinsesti di tutti i mass media, più che conoscere l’opinione pubblica la confezionano ricorrendo alle collaudate tecniche della comunicazione pubblicitaria. Una profezia che si autoavvera somministrando quesiti come fossero farmaci a cittadini ridotti a consumatori dal marketing politico. Abbandonate le certezze religiose e ideologiche si vive ormai nell’incertezza del mercato, con piedi e testa messi per terra e confinati dalle percentuali. Tra “ci sei” e “ci fai” non c’è più soluzione di continuità: pensiero unico e coscienza stroboscopica in un regime scientista di democrazia statistica
Geopolitica energetica
Analisi interessante quella di Vijai Jayaraj sulle relazioni tra nucleare e inquinamento, ma fuorviante. Nel mio libro “L’astuzia del robot. Come pensare l’intelligenza artificiale” facevo osservare che “(…) con il progredire della scienza moderna assistiamo dal secolo scorso ad un capovolgimento dei fini della ricerca rispetto alla applicazione tecnologica: la prima applicazione dell’energia nucleare (…) è stata la bomba atomica e fu voluta per espresse finalità militari. Ne sono la prova le bombe atomiche fatte esplodere a Hiroshima e Nagasaki nel 1945 in Giappone che precedettero di sette anni la prima centrale termonucleare per la produzione di energia elettrica a scopo civile, installata in USA nel 1952”. Ancora oggi questo peccato originale deforma la percezione dell’energia nucleare quale fonte sicura ed ecologica per risolvere il problema dell’approvvigionamento energetico, ed è ragionevole supporre che, in attesa della fusione nucleare, alla paura della guerra nucleare (oltre 15.000 testate atomiche attive nel mondo), alla paura del rischio incidenti centrali nucleari (440 centrali nucleari nel mondo) si sia aggiunta quella per la crisi climatica con il rischio di ritardare ulteriormente decisioni ormai urgenti.
Tuttavia, il punto è che si analizzano le fonti energetiche assumendo un fabbisogno intenso e concentrato, qual è quello necessario all’attuale modo di produzione e consumo da cui dipende la crescita economica come fino ad oggi è stata intesa. Questa implicita assunzione, consistente nel considerare l’energia (di origine naturale) come una variabile indipendente del sistema economico (di origine artificiale), si regge su una logica autoreferenziale che pretende di trovare soluzioni, sempre più complesse e instabili, all’interno di un sistema che considera gli effetti negativi della crescita economica come esternalità. In termini più generali e logici, si confida che la soluzione di un problema generato dal sistema sia sempre possibile agendo al suo interno.
Se, invece, risalissimo alle radici storiche e culturali del problema (rivoluzione industriale-capitalismo) scopriremmo che l’ordine mondiale vigente, con le sue forze che lo sostengono e i suoi effetti che lo giustificano, non ha mutato la sua logica costitutiva ponendo la domanda cruciale, quale che sia il futuro del nucleare: chi sarà il padrone dell’uranio? Attualmente, secondo la “World nuclear association” i maggiori estrattori di uranio sono Kazakistan, Canada e Australia, che insieme contribuiscono al 65% della produzione globale, seguono Namibia, Russia, Niger, Uzbekistan e Stati Uniti ed altri minori. Le miniere sono controllate da un ristretto gruppo di società: una decina di multinazionali, con in testa la francese Areva. Anche sul controllo dell’uranio, così come dell’acqua, dei terreni agricoli, delle terre rare si gioca l’esistenza di miliardi di persone.
Stato etico e stato soave
Seguo volentieri le serie Tv giapponesi nella convinzione che osservare come loro rappresentano se stessi mentre affrontano i problemi dell’esistenza e della quotidianità ci aiuta a comprendere la loro cultura. Tutto il cinema è un’espressione della pedagogia del paese che li produce, ma le serie Tv, a differenza dei film che per lo più sono congegnati in funzione anche di un pubblico straniero, si rivolgono principalmente al pubblico domestico mostrandone attraverso immagini, volti e dialoghi i principi e i valori. In altre parole le serie tv, al di là delle storie raccontate ed anche della lingua sconosciuta, ci dispongono in una posizione di apertura analoga a quella che un antropologo assume di fronte ad una popolazione di diversa cultura.
Un esempio. In una serie tv giapponese ambientata in una scuola superiore (Gomen ne Seishun! Regret from My School Days, distribuita da Netflix) la divinità della compassione Kannon, voce narrante in questa opera (la cui tipologia in giapponese è chiamata dorama), ci avverte che “La giovinezza è un lasso di tempo prezioso concesso da Dio. Che sia una commedia, un dramma o un orrore, prima o poi va restituita. Se ci aggrappiamo ad essa perché è bella dopo pagheremo un prezzo molto alto”.
Così: in una storia apparentemente banale tra studenti e adulti di una scuola, tra le emozioni sconosciute provocate dagli amori, i sensi di colpa, la diversità sessuale, il rispetto e la solidarietà verso gli altri che agitano gli anni dell’ adolescenza di giovani giapponesi ecco apparire un monito. Si tratta di un insegnamento tipicamente buddhista, eppure a me ha fatto immediatamente richiamare il sentimento espresso nella lirica Il sabato del villaggio.
Di fronte alle diversità dello straniero, l’esotismo delle culture lontane, l’universalità dei principi…: tutto il mondo è paese? No. Ci sono pensieri che appartengono ad una sola lingua. Tuttavia, se i pensieri sono diversi i sentimenti sono comuni.
Minima moralia
Ragione vorrebbe che le accuse di “crimini contro l’umanità” o “crimini di guerra”venissero rivolte al termine di un conflitto o dell’arresto o morte di un dittatore, una volta acquisite tutte le informazioni necessarie e istituiti processi internazionali legali o politici. Lo abbiamo visto, per esempio, alla fine della seconda guerra mondiale con la sconfitta della Germania (processo di Norimberga) e del Giappone (processo di Tokyo) o dopo la morte di Stalin (il disgelo seguito alla destalinizzazione nell’Unione Sovietica). Una assunzione che dovrebbe promuovere la ricerca di una quanto più rapida cessazione del conflitto. Questa volta invece la Vice Presidente degli Stati Uniti, sovvertendo le regole del gioco, ha ritenuto di dover lanciare ufficialmente l’accusa contro Vladimir Putin alla “Conferenza sulla sicurezza” di Monaco del 18/2/2023 (messaggio subliminale che evoca un evento del 1938 prima della tragedia) nel pieno dello svolgimento della guerra in atto in Ucraina: “Non ci sono dubbi. la Russia ha commesso crimini contro l’umanità”. A parte la sicurezza dell’esternazione, che ricorda quella mostrata da un ex Segretario di Stato degli Stati Uniti contro l’Iraq accusata di possedere “armi di distruzione di massa”, che poi cercò di recuperare affermando in una intervista che “L’assenza di una prova non è la prova di un’assenza”, qui interessa l’essenza stessa del concetto di “crimine di guerra”.
Ricordo l’addestramento ricevuto durante l’assolvimento del servizio militare di leva che prevedeva la seguente regola d’ingaggio durante i turni di guardia: chiedere tre volte “altolà chi va là, fermo o sparo” prima di essere legittimati a sparare. Considerata la paura per i rischi che si sarebbero occorsi in una simile circostanza e, d’altra parte, la materiale impossibilità di verificare ex post la corretta sequenza temporale, circolava la seguente battuta: “prima sparate e poi chiedete l’alto là”. Potrebbe sembrare una battuta cinica tra commilitoni depressi dalla naja, invece è un esempio della logica che guida la comunicazione conflittuale tra nemici sistematicamente usata non solo nei conflitti armati ma anche e soprattutto in politica, e che trasforma l’informazione in propaganda. Tale logica può essere così espressa: lancia un’accusa per primo, la verità degli argomenti è irrilevante, e poni l’avversario nella posizione di doversi difendere, sempre sotto scacco.
Tornando al merito, le dichiarazioni della attuale diplomazia americana rivolte al leader politico russo, al di là delle analisi e valutazioni sulla guerra in atto e delle rispettive responsabilità dei confliggenti, ritengo sia necessario e utile richiamare alla memoria come gli Stati Uniti conclusero la seconda guerra mondiali nel Pacifico, vincendola.
Nel 2004 fu assegnato il Premio Oscar come miglior documentario a The Fog of War – La guerra secondo Robert McNamara del regista Errol Morris, poi conservato alla Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. Tratto dal libro scritto da Robert McNamara, ex Segretario alla Difesa degli Stati Uniti con i Presidenti J.F.Kennedy e L.B.Johnson, vi si raccontano e commentano gli avvenimenti bellici che lo videro protagonista. Il libro, basato su lunghe interviste e molti documenti, è diviso in 11 lezioni che pongono l’accento sul valore della responsabilità verso la società. Dai suoi titoli traspaiono gli studi filosofici di logica ed etica condotti da McNamara a Berkeley, titolo quali per esempio: entra in empatia con il tuo nemico, la razionalità non ci salverà, credere e vedere spesso sono entrambi sbagliati, la proporzionalità dovrebbe essere una linea guida in guerra, c’è qualcosa al di là di se stessi…
Durante la seconda guerra mondiale McNamara ricopriva il ruolo di capitano presso l’Ufficio statistico delle forze aeree americane con il compito di misurare la produttività del complesso militare-industriale, attraverso il rapporto tra il numero di morti inflitte al nemico rispetto a quelle subite e mise a punto un sistema di controllo sull’efficienza (in quel momento ritenuta insufficiente) dei bombardieri B-29 dislocati nel Pacifico al comando del Generale Curtis LeMay, Capo di Stato Maggiore dell’aviazione degli Stati Uniti. Questi nel periodo febbraio-luglio 1945 progettò e ordinò i bombardamenti a tappeto con bombe incendiarie (napalm), già adottate ad Amburgo e a Dresda e rese ancor più più efficaci contro le abitazioni in legno e carta delle città giapponesi. Tali bombardamenti generarono una tempesta di fuoco su 67 città giapponesi provocando la perdita di almeno 1,5 milioni di vite civili, più gli animali (100.000 persone civili morirono bruciati e soffocati con il solo bombardamento di Tokyo nella notte del 9-10 marzo del 1945). La campagna si concluse con l’ordine di lanciare, avuto il permesso del presidente Harry Truman, la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki il 6 e il 9 agosto 1945. Durante il conflitto l’alto comando statunitense desistette dallo sganciare un terzo ordigno nucleare sulla capitale Tokyo, dal momento che la città, oltre ad essere la sede dell’Imperatore (la cui morte avrebbe rappresentato un problema nella successiva fase di ricostruzione del paese) nell’agosto 1945 era già stata completamente distrutta dai precedenti bombardamenti incendiari.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale v’erano alcuni osservatori che riconobbero l’immoralità di quei bombardamenti, concepiti e attuati come una strategia a lungo termine avente lo scopo di prostrare la popolazione, colpire definitivamente l’industria bellica giapponese e minare la volontà del governo nipponico di lottare a oltranza, ma che vennero giustificati necessari e le sue perdite dicivili considerate accettabili dall’amministrazione statunitense. Tuttavia, Robert McNamara in “Fog of War” ebbe a confessare : “LeMay mi disse: – “Se avessimo perso saremmo stati perseguiti come criminali di guerra” – Penso avesse ragione e vorrei dire noi ci stavamo comportanto da criminali di guerra. LeMay riconosceva che quello che stava facendo sarebbe stato considerato immorale se la sua parte avesse perso. Ma che cosa rende un’ azione non immorale se vinci ed immorale solo se perdi?”
Alla fine l’accostamento stesso dei termini “crimini” e “guerra”, ancorché legati da una proposizione, non è pleonastico? Può mai esistere una guerra senza crimini? Non è la guerra stessa un crimine, al di là di come la si conduce?