L’orientamento scolastico: la profezia che si autoavvera.

Il primo mese di ogni anno è fonte di ansia per migliaia di famiglie che, dopo essere state stordite dal marketing scolastico degli “Open day”, devono scegliere nell’arco di tre settimane a quale scuola superiore iscrivere i propri figli: licei, tecnici o professionali? Imporre i desideri dei genitori o assecondare quelli dei figli? No, in entrambi i casi è sbagliato. È bene invece affidarsi al “consiglio orientativo” della scuola media, per evitare la gran parte delle bocciature e dei ritiri che avvengono al primo anno delle superiori. Come afferma l’ineffabile preside a capo della Associazione nazionale preside della Lombardia (Anp) in un articolo apparso su la Repubblica del 3 gennaio, forte delle risultanze statistiche, “le famiglie dovrebbero dare molto più peso al consiglio orientativo della scuola e meno alle loro ambizioni” e più oltre prosegue rimproverandole perché ignorano che quel orientamento “è frutto di un lungo lavoro di osservazione e di analisi delle attitudini dei ragazzi”.



Per analizzare le questioni poste da questo dilemma, tanto significative se si tiene presente che stiamo trattando una scelta fondamentale per gli adolescenti, potrei basarmi sulla mia pluriennale esperienza di insegnante e di preside (sono trascorsi ormai trent’anni da quando operavo nell’istruzione e formazione gestita dal Comune di Milano), ma preferisco qui pormi invece come genitore di tre figli che hanno dovuto affrontare negli ultimi dieci anni il drammatico guado dopo essere usciti da tre differenti scuole medie. Non intendo portare queste tre esperienze come esempi qualificanti, sono solo tre casi statisticamente irrilevanti, voglio solo puntualizzare i temi esplicitati e non affrontati nell’articolo citato dal punto di vista di chi si è trovato ad essere “cliente” della “offerta formativa” della scuola italiana setacciata negli ultimi vent’anni da almeno due sedicenti riforme scolastiche.

Tutto il discorso sull’orientamento scolastico si regge sui seguenti tre assunti: i) un adolescente all’età di 14 anni manifesta le proprie inclinazioni, attitudini o talenti; ii) gli insegnanti delle scuole medie hanno una preparazione psicologia e psicopedagogica che li mette in grado di valutare tali inclinazioni, attitudini o talenti; iii) fuori dalla scuola esiste un mercato del lavoro in rapida trasformazione rispetto al quale la scuola deve allinearsi.

Primo assunto: le attitudini degli adolescenti. Una volta ai bambini veniva chiesto: “cosa vuoi fare da grande?” Nella maggioranza dei casi, fatta salva la divisione in classi delle famiglie, la risposta era il mestiere del papà (le mamme ancora non lavoravano), quello del ruolo sociale importante o di successo (medico, pilota, calciatore…) o quello del ruolo legato ai giochi e passatempi più amati. Fa sorridere, vero? Ma non è poi tanto banale: la prima scelta (il mestiere del papà) è l’esatta espressione dell’appartenenza del bambino alla condizione socioeconomica della famiglia, la seconda prefigurava già l’influenza della società esterna alla famiglia attraverso per esempio la televisione e il cinema (influenza che a sua volta rimanda alla posizione sociale della famiglia). E cosa diciamo della terza? Tutti i bambini amano disegnare (un’importante forma di espressione della loro personalità), alcuni amano suonare e alcuni sono anche bravi (talenti?), ma quanti di loro frequenteranno scuole d’arte o di musica? Conosciamo la risposta, gli adulti sanno bene che nella nostra società con l’arte non si trova lavoro (ricordate quel ministro di dieci anni fa che sosteneva che “con la cultura non si mangia”?) e preoccupati per il loro avvenire devono stroncare al più presto simili inclinazioni infantili, non produttive.

Nella scuola italiana esiste una curva d’attenzione per i bambini che rapidamente decresce con il crescere della loro età. Dall’asilo nido, alla scuola materna fino alla scuola elementare il bambino viene socializzato, educato, istruito, poi per un misterioso motivo con la scuola media (e siamo ancora nell’età dell’obbligo scolastico) inizia l’abbandono: disposizione a monade nell’aula, lezione frontale in un rapporto uno (insegnante) – molti (alunni) in cui il bambino si trova ad essere di colpo un individuo che deve imparare gli atteggiamenti e i valori dell’adulto. In questo triennio egli si gioca, inconsapevolmente, buona parte del suo futuro. Dalla scuola media non si esce tanto con un diploma, di valore ormai irrilevante, quanto con il “consiglio orientativo”: sarà questa la patente che lo abiliterà al suo destino formativo.

Secondo assunto: la formazione dell’insegnante. Siamo stati così intenti a criticare gli insegnanti per la loro diffusa incapacità di appassionare gli studenti alle loro materie, per la loro capacità di rendere molte materie noiose e incomprensibili, per la meticolosità sindacale di non eccedere oltre le mitiche 18-ore-di-cattedra, fatta salva la distinzione tra “ore di lezione” e “tempo scuola”, da non accorgerci che i realtà siamo di fronte a degli psicologi che stavano giorno dopo giorno non solo valutando la preparazione dei nostri figli, ma anche osservando le loro attitudini e i loro talenti. Nemmeno in occasione dei Consigli di classe abbiamo compreso la profondità dei loro giudizi dietro le loro analisi sull’incapacità della classe, per esempio, di “ non sapersi comportare adeguatamente come studenti liceali” (sentita da me in più occasioni e mai spiegata). Già, perché solo gli insegnanti giudicano, confondendo la valutazione ( che è mutevole e puntuale) con il giudizio (che si trasforma in pregiudizio), mentre persino i magistrati, ancorché giudici, precisano di attenersi all’applicazione della legge.

Cosa valutano o giudicano gli insegnanti? Dopo aver speso tempo e fatica a richiamare all’ordine la classe che “chiacchiera e disturba la lezione”, presentano un’argomento (spiegano?), “non hai capito?” va bene lo ripeto (allo stesso modo), sì però “stai attento”, poi “studiate da pagina a pagina”, quindi “verifica” (quasi sempre a mezzo test con risposte multiple). Alla terza insufficienza, valutata su scala numerica da 0 a 10, tipo dieci domande un punto ciascuna, è chiaro: la matematica non è la tua materia, che ci fai ancora al liceo, scientifico?

Ho sempre sostenuto che l’insegnamento dovrebbe essere uno tra i mestieri meglio pagati, tuttavia non l’ho mai considerato un “lavoro” come un altro, come non può essere un semplice “lavoro” ogni attività che mette in relazione esseri umani tra loro, soprattutto se si tratta di educazione, istruzione e formazione delle giovani generazioni. Il fatto è che, qui nel nostro Bel Paese, la maggior parte degli insegnanti non ha scelto l’insegnamento come mestiere di elezione, ma perché da laureati, soprattutto nelle materie non tecniche o scientifiche, è stato l’unico lavoro reso loro disponibile per molti anni, come impiego pubblico (in tempi recenti nemmeno più esiste questa possibilità). Un lavoro che a fronte di uno basso stipendio offriva maggior tempo libero: è stata una trappola per molti.

Terzo assunto: il mercato del lavoro. Il principio cardine su cui si fonda e si struttura la scuola contemporanea e che conseguentemente condiziona la formazione e l’istruzione è il legame “scuola-lavoro”. E non potrebbe essere diversamente in una società che si fonda e struttura sull’economia. La scuola viene concepita come luogo e tempo dove addestrare l’individuo a compiere un lavoro e non dove formarlo come tale con la cultura. Si sostiene che questo degrado sia causato dalla supremazia assunta dalla tecnologia e dalla scienza rispetto alla cultura umanistica, ma è un grossolano errore. Innanzitutto perché sia la tecnologia che la scienza fanno parte della cultura, intesa non come arti e spettacolo ma come accrescimento di tutte le facoltà umane, inoltre perché la facoltà spirituale per eccellenza dell’uomo è il pensare, non l’oggetto su cui si pensa, e il motore dell’evoluzione ala conoscenza. La separazione tra filosofia e scienza si è conclamata con l’affermarsi del modo di produzione e consumo che oggi impera su tutto il pianeta, partito tre secoli fa con le rivoluzioni industriali fondate dalle scoperte scientifiche e tecnologiche. Come stupirsi allora per la riduzione della scuola, originariamente luogo d’apprendimento delle conoscenze, a ruolo di incubatori di lavoratori capaci d’inserirsi quanto prima con le dovute e certificate competenze per garantire la continua produttività? D’altra parte, l’insistente richiamo al collegamento scuola-lavoro presupporrebbe che fuori dalla scuola esistesse uno solido sviluppo della industria e della ricerca: è questo il caso dell’Italia di oggi? Se volessimo, come io vorrei, coltivare i figli, ovvero renderli colti, piuttosto che orientarli verso le esigenze non della società, ma dell’economia, allora dovremmo preoccuparci che la scuola dell’obbligo durasse fino ai 18 anni, avendo come finalità la formazione dell’uomo, che in seguito lavorerà, e non piuttosto di un lavoratore, che socializzerà in funzione del ruolo assunto.

In conclusione. La scuola dovrebbe formare tutti e indistintamente con la cultura, umanistica e scientifica, perché sia messo in grado di inserirsi nella società contribuendo a trasformarla, non deve orientare verso un posto prefissato utile alla società esistente. Essa deve aprire quanto più possibile la mente di un giovane, bambino o adolescente, perché sia in grado da sé di scegliere come orientarsi nella società e nel mondo del lavoro. Per questo motivo la scuola, obbligatoria almeno fino a 18 anni, non deve essere strutturata in modo differenziato con indirizzi e specializzazioni, al punto di costringere un adolescente ad una scelta che non è in grado di fare né disposto ad accettare sia che venga imposta dai genitori condizionati dalle loro esperienze e livello culturale, sia che venga offerta da consulenti che rispondono più alle esigenze del mercato del lavoro che a quelle culturali di ognuno. Nella realtà il “consiglio orientativo”, emesso dopo 8 anni di scuola, è una profezia che si autoavvera alterando il comportamento del soggetto che così si conformerà al giudizio: una autentica certificazione di esclusione. Si parla tanto di uguaglianza e di parità di diritti applicati alle varie condizioni sociali, di genere, di credo religioso, di orientamento sessuale e di etnia, senza rendersi conto che la vera parità da rivendicare che unifica e supera ogni determinazione particolare della diseguaglianza è la parità culturale, e inizia dalla scuola. Solo la cultura ci potrà salvare.