Perché votare M5S.
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Il risultato più significativo delle elezioni comunali del 2016 è che solo il 50% degli italiani ha votato i sindaci, che sono stati eletti ai ballottaggi con in media il 28% dei loro voti. Queste due percentuali sono gli unici valori che danno il senso di quanto è risultato dalle elezioni amministrative, perché sono riferiti ai valori assoluti dei cittadini aventi diritto al voto e non solo a coloro che hanno votato e quindi tengono conto del dato di affluenza, il valore più alto che emerge in tutte le città. Se confrontiamo questi due valori con le percentuali con le quali si sono rappresentati i risultati e sulle quali si sono condotte le analisi, tanto quelle emozionate dei vincitori quanto quelle sbigottite degli sconfitti, capiamo che il deficit di democrazia esistente nel nostro paese dipende non solo e non tanto dalle scorrettezze dei governanti, quanto dall’abbandono della politica da parte di una popolazione che non si percepisce più come cittadini.
Se decodifichiamo i risultati espressi ormai solo in valori percentuali (gli indici statistici non sono di così facile comprensione considerato il livello di analfabetismo funzionale esistente) e li riconduciamo ai valori assoluti di riferimento, ovvero le reali quantità in gioco che in questo caso descrivono la realtà nella sua concretezza, ci rendiamo conto della vera e profonda crisi politica del nostro paese. Quando si vuole far capire il concetto di percentuale si usa spesso la rappresentazione tramite il “grafico a torta” mostrando la percentuale come la parte (la fetta) del tutto (la torta). Ebbene, si provi per la propria città a disegnare su un foglio una torta (che rappresenta il numero di elettori) e poi si delimiti una fetta magari con un diverso colore che rappresenti la quantità di voti raggiunti dal sindaco eletto: si dovrebbe provare un certo stupore nel constatare con quanti voti in realtà sia stato eletto il proprio Sindaco. Appaiono a questo punto ben diversi i valori percentuali pubblicati e diffusi dai media sui quali politici, opinionisti, giornalisti formano le proprie opinioni. Nella mia città Milano, per esempio, il Sindaco Giuseppe Sala vince la consultazione col 51,70 % dei voti rispetto al totale dei votanti, ma solo con il 26,27% dei voti rispetto ai cittadini milanesi. In altri numeri, in valori assoluti, Giuseppe Sala è stato scelto da 264.481 milanesi su un totale di 1.006.701.
Invito a verificare i conti per tutte le altre città, utilizzando per esempio i dati pubblicati da TGCOM24, per avere un quadro generale su tutto il territorio nazionale e constatare quanto il fenomeno sia generalizzato. Nelle altre quattro città principali oggetto dell’attenzione politica di queste ore è avvenuto lo stesso fenomeno: a Roma Virginia Raggi è stata eletta col 32,60 % dei cittadini romani, a Torino vince Chiara Appendino col 29,194, a Bologna vince Virginio Merola col 27,91% e a Napoli è Sindaco Luigi De Magisteri col 23,58%.
In questa prospettiva ci dobbiamo interrogare sul significato della buona intenzione “sarò il Sindaco di tutti”. Per rispondere credo si debba fare prima un fondamentale distinguo tra le due principali formazioni politiche che si sono confrontate (direi piuttosto affrontate) in queste elezioni: il M5S e il PD. L’opinione del giorno dopo si è concentrata sulla novità delle due giovani donne elette Sindaco, ironia della sorte, proprio nella capitale dell’Unità d’Italia e in quella precedente dello Stato Sabaudo. Certamente un caso, tuttavia più che per una questione di genere la vera novità sta nella giovane età delle due Sindaco: 38 anni il Sindaco di Roma, 32 anni il Sindaco di Torino. L’Italia non è un paese per giovani, come la migrazione verso i paesi esteri e l’invecchiamento della popolazione dimostrano, e bisogna riconoscere che il M5S è la sola forza politica che in questi ultimi anni si è occupata, con successo come i fatti dimostrano, di ricostruire una classe dirigente capace, a partire dal basso e dai giovani e fondata sull’onesta, i diritti, la partecipazione e la responsabilità, principi e valori ormai trasversali tra le giovani generazioni cresciute ormai al di là delle appartenenze ideologiche o di potere. Mi è piaciuto sentire da un loro esponente, uno di quelli appunto selezionato sui principi e valori, che si sentiva responsabile per essere un “portatore della speranza” per i cittadini e non più, aggiungo io, “un portatore d’interesse” per gli elettori.
A ben vedere i modi che il M5S ha utilizzato per crescere, come per esempio la militanza quotidiana sul territorio, sono gli stessi del vecchio PCI, sebbene questo agisse all’interno di una concezione ideologica che poneva alle avanguardie organizzate in partito il compito della guida della classe operaia. Quanto al PD, l’attuale suo segretario e Presidente del Consiglio appartiene pure alla giovane generazione di politici (divenne Sindaco di Firenze a 34 anni e ancor prima Presidente di Provincia a 29 anni), ma il suo insediamento al potere senza il sostegno del voto popolare e la sua irruenza, quasi volesse utilizzare l’attività di governo come propaganda elettorale per accreditarsi di fronte agli italiani, ha mostrato la sua debolezza nell’aver “predicato bene ma razzolato male”: che n’è stato della rottamazione? Come valutare l’operato delle giovani donne Ministro di cui si è circondato? Il tentativo di identificare il M5S con i suoi fondatori, visti come esponenti privati che condizionano dall’esterno la loro politica, si è rivelato nel tempo perdente nella misura in cui i “pentastellati” arrivati in Parlamento hanno studiato e imparato a capire la realtà sociale e politica del paese più rapidamente di quanto il PD riuscisse a trasformarla.
Il caso di Giuseppe Sala Sindaco di Milano rappresenta forse un’eccezione. Partito con l’handicap di essere stato fortemente voluto dal Segretario-Presidente del Consiglio Matteo Renzi, con ciò provocando in occasione delle Primarie la spaccatura della sinistra milanese, vedendosi in parte erosa la fiducia acquisita come manager dell’Expo da parte dell’abile manager “fotocopia” contendente del centrodestra, ha saputo soprattutto nella pausa per il ballottaggio riconquistare la fiducia nell’area della sinistra, mostrando una personale maturazione politica che lo ha fatto percepire autonomo e sincero nelle sue intenzioni di incidere sulle periferie e interrompere lo sviluppo di una “Milano a due velocità”.
L’analogia che colgo nella apparente crescita, da una parte della nuova classe dirigente espressa dal M5S, dall’altra di un nuovo esponente per origine e stile del riformismo di sinistra, può essere una buna ragione per considerarli i “portatori della speranza”.
È quello che siamo tutti: dilettanti. Non viviamo abbastanza per diventare di più. (Luci della ribalta, C.Chaplin)
La sceneggiata offerta dai politici alla Camera dei Deputati, causata dall’ abbinamento forzato e nascosto del decreto Imu-Bankitalia e agìta secondo i loro livelli culturali, già oscura con i suoi clamori la proposta di legge elettorale, messa in disparte e rimandata. Matteo Renzi spiazzato dalle agende del Governo e della Camera si defila dalla ribalta, mentre la sguaiata opposizione del M5S da rumore di fondo diventa segnale. E che segnale: dall’attacco ai politici e ai governanti si passa all’attacco delle persone che ricoprono le massime Istituzioni dello Stato quali la Presidente della Camera e il Presidente della Repubblica, colpevoli di fare politica di parte e di non garantire nella trasparenza i diritti di tutte le parti, e all’attacco di quei giornalisti o intellettuali che li criticano apertamente.
Il comportamento adottato dai parlamentari del M5S in relazione a quello dei demiurgi che li guidano, indipendentemente dal contenuto di verità delle loro affermazioni, richiama alla mente la strategia del Dipartimento per l’agitazione e la propaganda del fu Partito Comunista Sovietico, ricordata come agitprop, termine acronimo che per antonomasia è stato da allora utilizzato per descrivere in politica la figura del provocatore. Negli anni che seguirono il ’68 si usava la logica del cui prodest? per scovare gli estremisti responsabili degli attentati politici.
Oggi quel metodo a quali spiegazioni ci condurrebbe? Mentre la sinistra si arrovella nella ricerca di incostituzionalità e di attacchi alla democrazia, il populismo sia di destra che di sinistra cerca il salvatore della patria ed ha fretta: dopo Silvio Berlusconi oramai in declino alla ricerca di una successione ecco affermarsi il decisionista naïf Matteo Renzi e, perché no, quel giovane sanculotto Alessandro Di Battista.
Gli uomini del fare si richiamano alla concretezza e vivono di percezioni: si concentrano sul qui ed ora, mentre il loro pensiero debole riposa tra rimozioni e proiezioni. La velocità con cui le notizie e i commenti si susseguono nei media, velocità notevolmente accelerata dalla potenza del web divenuto il pace maker dei giornali e televisione, obbliga la realtà a mutare continuativamente, sottraendo tempo alla riflessione e inducendo all’oblio.
Avverte Macchiavelli: “Tu bada ben che l’aver in le tue mani il potere della Repubblica e il plauso di chi crede che si possa governare senza inganno non ti è bastante, poiché non è tanto la novità che conta, ma produrre il nuovo. Quindi ascolta e provoca il popolo perché parli a costo di causare in te risentimento (…)”
Beppe Grillo potrebbe oggi sembrare un eroe della mitologia greca che ha sfidato i politici (gli dei) e nella sua tracotanza (hybris) potrebbe gridare al mondo: quando sento parlare di senso di responsabilità metto mano alla pistola. Ed avrebbe ragione. Tutti adesso si appellano al senso di responsabilità, sono quelli che hanno perso e che oggi ci dicono che noi tutti siamo nella stessa barca. Io temo queste persone e questa politica perché per criticarle possono bastare motti come quest’altro di Goebbels: per la politica il carattere conta molto più che l’intelligenza: è il coraggio che conquista il mondo.
Prima la campagna elettorale con i sondaggi, poi i commenti sui risultati. La politica come il calcio: un’ora di partita e una settimana di chiacchere. Recita un detto popolare mantovano: toti i asin menen la coa, toti i coioni disen la soa (ndr: tutti gli asini menano la coda, tutti i coglioni dicono la loro). E’ penoso assistere allo scorrere nei dibattiti televisivi delle facce pallide e frastornate del centro-sinistra balbettare ossessivamente spiegazioni assurde con il loro linguaggio onanistico da perdenti, un linguaggio incomprensibile fatto di analisi politichesi sul capello diviso in quattro.
Tutti gli osservatori e opinionisti sono concordi nel ritenere che con le elezioni 2013 abbiano trionfato i populismi. A quello già noto di destra di Berlusconi consolidato in venti anni si sarebbe contrapposto quello di sinistra dei grillini (un M5S capace in breve tempo di raggiungere 8.688.000 voti, dragando il 30 % dei voti dal centro-sinistra, altri dall’astensionismo e il 39% dalla Lega e il Pdl). E’ stato giustamente osservato che M5S costituisce da solo una “grosse Koalition”.
Dunque la novità sarebbe che si sono resi visibili diversi populismi ascrivibili a diverse sensibilità politiche. La verità però, una verità che si poteva conoscere da molti anni ma che è stata nascosta prima dalle ideologie e poi dalla illusione del bipolarismo, è che la cultura arretrata italiana ha bisogno del populismo per fare politica ed oggi con il doppio populismo si è almeno ridotto il qualunquismo.
L’avanzata inesorabile del M5S ci sta mostrando una strutturale novità: la formazione di un nuovo blocco sociale ancorato su una base generazionale e non più ideologica, costituito da una classe di cittadini grosso modo compresa nella fascia d’età tra i 20 e i 50 anni. Una nuova classe di ‘giovani’. Come se si fosse avvertito che il declino del paese potesse anche dipendere dall’invecchiamento della popolazione (l’indice di vecchiaia ha raggiunto in Italia una valore ragguardevole, secondo in Europa, ed è destinato a crescere nei prossimi tre decenni).
Altro che rottamazione, si tratta di una rivoluzione culturale che può scaturire in una profonda rivoluzione sociale. Qualche cosa di simile a quanto è accaduto alla fine degli anni sessanta, quando i figli del baby boom e del benessere rivendicarono la propria esistenza contro la società autoritaria. Oggi però i vettori della protesta non sono più gli studenti, essi sono cresciuti e diventati normali cittadini lavoratori e precari, insegnanti, operai, professionisti, piccoli imprenditori. Appartengono alla classe d’età 20-50 anni, ovvero la generazione nata tra il 1963 e il 1988: i figli dei sessantottini e parte di loro stessi, invecchiati. Molti di loro hanno una scolarizzazione superiore alla media nazionale, alcuni sono nativi digitali e comunque tutti socializzati dal web. Ciò che essi rivendicano non è solo il lavoro ma una nuova socialità, perché il lavoro viene sì considerato ancora come la condizione necessaria per la dignità umana (condizione oggi resa drammatica dalla crisi economica e dall’insipienza delle politiche fin qui adottate), ma percepito anche come condizione non più sufficiente per la crescita culturale e personale.
Non voglio passare per il Pasolini dei grillini, ma guardateli in faccia questi 163 grillini neoeletti: alla Camera 71 uomini e 37 donne con età media di 33 anni, al Senato 30 uomini e 24 donne con età media di 46 anni. Come si può pensare di comprendere e interagire con un tale fenomeno utilizzando usurate categorie socio politiche novecentesche? Molti dei valori e dei temi che tormentano la coscienza dei politici sono valori per molti di loro già praticati nella vita quotidiana, anche se non sempre ne sono culturalmente consapevoli. Non vanno considerati come vettori patologici antipolitici, ma come portatori sani, per lo più inconsapevoli, di una nuova politica.
Fra due o tre settimane i cronisti di tutte le reti nazionali e internazionali si accalcheranno di fronte a Palazzo Montecitorio e a Palazzo Madama per mostrare al mondo gli imbarazzi e le emozioni di questi neofiti al loro primo giorno di scuola accompagnati dai genitori Grillo e Casaleggio, mentre giornalisti prezzolati e politici rancorosi cercheranno in loro i segni di un ulteriore degrado della politica e delle istituzioni.
Saranno per allora raggiunti possibili accordi per un’ipotesi di governabilità, sia pure transitoria? Beppe Grillo non ha paura degli inciuci di programma. E’ ben consapevole che la forza del M5S sta proprio nella capacità di condizionare la politica dei partiti rimasti e quindi nella negoziazione. Per i leghisti della prima ora Roma era ladrona, per i grillini contemporanei è invece il tempio da cui cacciare i mercanti. Il suo timore è piuttosto quello dei possibili inciuci (scouting) a cui una parte dei suoi neoeletti, insediati al Parlamento senza vincoli di mandato, possano esporsi o magari cercare individualmente per inesperienza e smarrimento in quelle acque torbide che vorrebbero rendere trasparenti. Dalla rete già echeggiano i primi rumors. Una possibilità che i partiti sopravvissuti coltiveranno più o meno cinicamente alla ricerca dei voti perduti: dìvide et impera.
Il Partito Democratico, o almeno quello che emergerà dal disastro elettorale, ha il dovere morale non di ri-costruire se stesso, con la ricerca di una strumentale alleanza con i grillini (per altro necessaria nel breve periodo), ma di cogliere nella formazione della nuovo blocco sociale il nuovo soggetto politico che offre l’opportunità di rigenerarsi culturalmente e ristabilire una buona e moderna politica di sinistra per un nuovo welfare state da offrire al Paese. Tutti a casa dunque, anche Grillo.