Democrazia e demografia.

images-1Beppe Grillo potrebbe oggi sembrare un eroe della mitologia greca che ha sfidato i politici (gli dei) e nella sua tracotanza (hybris) potrebbe gridare al mondo: quando sento parlare di senso di responsabilità metto mano alla pistola. Ed avrebbe ragione. Tutti adesso si appellano al senso di responsabilità, sono quelli che hanno perso e che oggi ci dicono che noi tutti siamo nella stessa barca. Io temo queste persone e questa politica perché per criticarle possono bastare motti come quest’altro di Goebbels: per la politica il carattere conta molto più che l’intelligenza: è il coraggio che conquista il mondo.

Prima la campagna elettorale con i sondaggi, poi i commenti sui risultati. La politica come il calcio: un’ora di partita e una settimana di chiacchere. Recita un detto popolare mantovano: toti i asin menen la coa, toti i coioni disen la soa (ndr: tutti gli asini menano la coda, tutti i coglioni dicono la loro).  E’ penoso assistere allo scorrere nei dibattiti televisivi delle facce pallide e frastornate del centro-sinistra balbettare ossessivamente spiegazioni assurde con il loro linguaggio onanistico da perdenti, un  linguaggio incomprensibile fatto di analisi politichesi sul capello diviso in quattro.

Tutti gli osservatori e opinionisti sono concordi nel ritenere che con le elezioni 2013 abbiano trionfato i populismi. A quello già noto di destra di Berlusconi consolidato in venti anni si sarebbe contrapposto quello di sinistra dei grillini (un M5S capace in breve tempo di raggiungere 8.688.000 voti, dragando il 30 % dei voti dal centro-sinistra, altri dall’astensionismo e il 39% dalla Lega e il Pdl). E’ stato giustamente osservato che M5S costituisce da solo una “grosse Koalition”.

Dunque la novità sarebbe che si sono resi visibili diversi populismi ascrivibili  a diverse sensibilità politiche. La verità però, una verità che si poteva conoscere da molti anni ma che è stata nascosta prima dalle ideologie e poi dalla illusione del bipolarismo, è che la cultura arretrata italiana ha bisogno del populismo per fare politica ed oggi con il doppio populismo si è almeno ridotto il qualunquismo.

L’avanzata inesorabile del M5S ci sta mostrando una strutturale novità: la formazione di un nuovo blocco sociale ancorato su una base generazionale e non più ideologica, costituito da una classe di cittadini grosso modo compresa nella fascia d’età tra i 20 e i 50 anni. Una nuova classe di ‘giovani’. Come se si fosse avvertito che il declino del paese potesse anche dipendere dall’invecchiamento della popolazione (l’indice di vecchiaia ha raggiunto in Italia una valore ragguardevole, secondo in Europa, ed è destinato a crescere nei prossimi tre decenni).

Altro che rottamazione, si tratta di una rivoluzione culturale che può scaturire in una profonda rivoluzione sociale. Qualche cosa di simile a quanto è accaduto alla fine degli anni sessanta, quando i figli del baby boom e del benessere rivendicarono la propria esistenza contro la società autoritaria. Oggi però i vettori della protesta non sono più gli studenti, essi sono cresciuti e diventati normali cittadini lavoratori e precari, insegnanti, operai, professionisti, piccoli imprenditori. Appartengono alla classe d’età 20-50 anni, ovvero la generazione nata tra il 1963 e il 1988: i figli dei sessantottini e parte di loro stessi, invecchiati. Molti di loro hanno una scolarizzazione superiore alla media nazionale, alcuni sono nativi digitali e comunque tutti socializzati dal web. Ciò che essi rivendicano non è solo il lavoro ma una nuova socialità, perché il lavoro viene sì considerato ancora come la condizione necessaria per la dignità umana (condizione oggi resa drammatica dalla crisi economica e dall’insipienza delle politiche fin qui adottate), ma percepito anche come condizione non più sufficiente per la crescita culturale e personale.

Non voglio passare per il Pasolini dei grillini, ma guardateli in faccia questi 163 grillini neoeletti: alla Camera 71 uomini e 37 donne con età media di 33 anni, al Senato 30 uomini e 24 donne con età media di 46 anni. Come si può pensare di comprendere e interagire con un tale fenomeno utilizzando usurate categorie socio politiche novecentesche?  Molti dei valori e dei temi che tormentano la coscienza dei politici  sono valori per molti di loro già praticati nella vita quotidiana, anche se non sempre ne sono culturalmente consapevoli. Non vanno considerati come vettori patologici antipolitici, ma come portatori sani, per lo più inconsapevoli, di una nuova politica.

Fra due o tre settimane i cronisti di tutte le reti nazionali e internazionali si accalcheranno di fronte a Palazzo Montecitorio e a Palazzo Madama per mostrare  al mondo gli imbarazzi e le emozioni di questi neofiti al loro primo giorno di scuola accompagnati dai genitori Grillo e Casaleggio, mentre giornalisti prezzolati e politici rancorosi cercheranno in loro i segni di un ulteriore degrado della politica e delle istituzioni.

Saranno per allora raggiunti possibili accordi per un’ipotesi di governabilità, sia pure transitoria? Beppe Grillo non ha paura degli inciuci di programma. E’ ben consapevole che la  forza del M5S sta proprio nella capacità di condizionare la politica dei partiti rimasti e quindi nella negoziazione. Per i leghisti della prima ora Roma era ladrona, per i grillini contemporanei è invece il tempio da cui cacciare i mercanti. Il suo timore è piuttosto quello dei possibili inciuci (scouting) a cui una parte dei suoi neoeletti, insediati al Parlamento senza vincoli di mandato, possano esporsi o magari cercare individualmente per inesperienza e smarrimento in quelle acque torbide che vorrebbero rendere trasparenti. Dalla rete già echeggiano i primi rumors. Una possibilità che i partiti sopravvissuti coltiveranno più o meno cinicamente alla ricerca dei voti perduti: dìvide et impera.

Il Partito Democratico, o almeno quello che emergerà dal disastro elettorale, ha il dovere morale non di ri-costruire se stesso, con la ricerca di una strumentale alleanza  con i grillini (per altro necessaria nel breve periodo), ma di cogliere nella formazione della nuovo blocco sociale il nuovo soggetto politico che offre l’opportunità di rigenerarsi culturalmente e ristabilire una buona e moderna politica di sinistra per un nuovo welfare state da offrire al Paese.  Tutti a casa dunque, anche Grillo.

 

 

 




Lacrime nella pioggia.

549200_4403488767929_1384666298_nLa scervellata politica del PD è giunta al capolinea, ma non credo abbiano capito. La linea politica del PD non parte da oggi ma da quando è stato deciso di cambiare nome al PCI. Da allora l’idea, in gergo la linea, è stata sempre quella di raggiungere il fatidico e ora esiziale 51%. Da quarant’anni non è mai cambiata. Per realismo si è cercato di spostarsi gradualmente a destra quel tanto che basta per perseguire questo fine secondo l’adagio “Per essere un buon ministro, bisogna prima essere ministro”.

Hanno perseverato in questo fino ad oggi ricattando sempre più il popolo di sinistra che vedeva sempre più sminuiti i propri valori (solidarietà tra compagni oggi non ha più significato) con l’aggravante di aprire le porte a gente che non ha esitato a iscriversi indipendentemente dalla fede politica pur di conseguire propri fini. Si consentiva al sindacato di imprendere, al partito di ficcarsi in ogni dove (Fondazioni) di intrallazzare alla stregua di chi dell’intrallazzo ha fatto politica. Meno, certo meno, senza paragoni. Ma le porte sono state aperte è più di uno è scappato dalle stalle.

La gente non ha potuto crederci, il più grande valore della sinistra, l’onestà, messa in discussione. “Non l’hai capito? Sono tutti uguali, sono tutti collusi”. Qualunquismo certo ma gliene è stato dato modo, modo di esistere. Che ha fatto culturalmente il PD per combattere il qualunquismo? Per combattere il qualunquismo in casa sua, a sinistra? Nulla! E se lo ritrova ora tutto contro nel popolo di Grillo.  51% e il vino gradualmente si è annacquato, ha perso di genuinità. Ovunque: nel partito come tra la gente.

La vecchia cultura se ne è andata e nulla è stato fatto per acquisirne di nuova. Vecchie ideologie andavano indubbiamente cambiate ma non bisognava dimenticare che quelle ideologie avevano affrancato il popolo anche su sani valori che non solo andavano consolidati ma indubbiamente bisognava acquisirne di nuovi. Adoperarsi cioè per una crescita culturale. In vent’anni di berlusconismo la cultura si è abbassata in tutto il paese e non solo a destra e questa votazione è la diretta espressione della cultura del paese. Come non comprenderlo!

Grillo non avrebbe ottenuto di certo questo risultato se la classe dirigente del PD si fosse rivolta verso il basso a ricordare al popolo di sinistra i valori che la sinistra unisce, valori che non stanno certo solo nella pagnotta ma nell’onestà, nel rispetto, nella tolleranza, nei diritti e nella dignità, nella compassione. Flessibilità? In un periodo di crisi si può accettare di stringere la cinghia ma non di perdere la dignità. C’è di peggio che la recessione, c’è la regressione. Ora la frittata è fatta.

Per la prima volta siamo certi che il popolo di sinistra (il popolo non i partiti) ha superato e di gran lunga il 51%. È innegabile che il popolo di Grillo appartenga come ha detto Berlusconi (incredibile l’ha detto proprio Berlusconi) per l’85% alla sinistra. La politica scellerata del PD ha lacerato il popolo di sinistra che non ha accettato più di essere ricattato e vedere disattese le proprie aspettative. Non solo Grillo ma anche coloro che non hanno votato (25%). Il paese tenuto conto di chi non ha votato non è diviso in tre ma in quattro.

Il PD prospettava con responsabilità ( nuova parola in auge che dà la linea e che tutti già ripetono a pappagallo) un governo Monti-Bersani e il risultato e che intere famiglie che prima votavano PD ora chiamano Bersani “Gargamella”, il puffo cattivo. Bersani non ha capito che Monti come alleato la sinistra non lo vuole, che Monti rappresenta la Finanza internazionale, il gruppo Bildenberg, il turbo capitalismo, quella finanza che sta affossando il popoli di tutte le nazioni.

Per giunta Bersani non ha dato assicurazioni sufficienti sulla scuola pubblica, sulla corruzione, sul conflitto di interessi, sulla patrimoniale, sul diritto del lavoro e soprattutto sulla sanità, lasciando intendere che sarà in accordo con Monti, inevitabilmente tagliata. Indegno a questo proposito tutto il giornalismo televisivo: sulla sanità non una sola domanda ad un solo leader.

Gli italiani stanno male, malissimo, non vogliono sentire prediche, non vogliono più sentire parlare di sacrifici, e sempre e solo di economia, stanchi di vedersi precarizzato il futuro e ormai anche il presente. Non si può togliere la speranza al popolo. Berlusconi e Grillo hanno aperto alla speranza hanno dato sfogo alla paura e alla rabbia. Si tratta di due capopopolo ma di due capopopolo ben differenti. Uno un populista di destra, l’altro un populista di sinistra, uno che di destra e sinistra ne ha pieni i coglioni fin da quando Guzzanti giocava di nascosto con le mani e invitava a indovinare qual era la destra e qual era la sinistra. Ormai la politica è diventata un cartone animato dove chi è il buono e chi è il cattivo si comprende solo dalla faccia che fanno e Berlusconi ride, ride sempre, quindi senz’altro è il buono.

Bersani si è detto ripetutamente fedele al governo Monti e ripetutamente si è lodato per questa sua fedeltà, ha mostrato chiarissima l’intenzione di stringere un’alleanza con Monti nella comune idea della responsabilità per salvare l’Italia e di combattere il populismo. Un successo che riteneva sicuro grazie a beceri sondaggi e al ricatto del voto utile presso il popolo di sinistra.

Bersani capisci questo: Monti la sinistra non lo vuole! A sinistra c’è chi pensa che Monti sia peggio di Berlusconi, che abbia ripulito le stalle per mungere meglio le vacche. Monti ha liberalizzato i mercati per portare gli Italiani a lavorare come i cinesi (Gramellini). Monti segue il Mercato, Monti è miliardario. Bersani non l’ha capito o se lo ha capito per responsabilità ha cercato di imporlo. Tanto sicuro da non aprire la porta a Ingroia. Motivo? Non voleva Monti e già aveva Vendola dentro come gatta da pelare. Ingroia ha bussato e lui non ha fatto finta di non sentire, avrebbe compromesso la sua alleanza.

Ma l’errore più madornale identico a suo tempo a quello commesso con la Lega, e stato quello di inimicarsi da subito Grillo che pur nella sua veste di capopopolo, di Brancaleone alla testa di diseredati, nella gestione della protesta portava nel programma molti punti più che condivisibili che anzi il PD avrebbe dovuto subito fare suoi, uno almeno attuato già da tempo (conflitto di interessi) e altri portati in parlamento e nelle piazze con ben altra forza, corruzione, lotta alla casta, difesa dei diritti dei lavoratori (art.18), difesa del welfare, della scuola pubblica, della sanità, referendum e tutte quelle battaglie civili che non riguardano direttamente l’economia. Si è di contro lasciato trascinare a parlare solo ed unicamente di economia. Centralità del lavoro? Senza sicurezza, serenità e dignità?

E anche qui: “Le cerimonie sono fatte per gli uomini e non gli uomini per le cerimonie”, da cui: “la finanza è fatta per l’economia e non l’economia per la finanza”, ma da ultimo “l’economia è fatta per gli uomini non gli uomini per l’economia”.

Salvare il paese può avere solo il significato di ridistribuire il reddito di far pagare la crisi a chi è vissuto al di sopra delle nostre possibilità. La vis forcaiola di Grillo è stata ben accolta, è nato in tutti un desiderio di vendetta, la violenza deve essere evitata e su questo Grillo si è già espresso, la rabbia comunque deve trovare soddisfazione.  No ad una patrimoniale, ma tasse di successione pesanti, pesantissime! È inammissibile che esistano persone che posseggono miliardi di euro, dico miliardi di euro, e li possano cedere ad eredi, al di fuori del merito?

Contro la ricchezza non esiste nessuna cultura nel paese. Qui il punto: la cultura del paese. Il popolo di destra non vota a destra: tifa per la destra, lo fa per opportunismo e per ignoranza. Berlusconi parla alla pancia e il popolo che vive solo di pancia non comprende altri valori. Il PD non ha mai fatto né parlato di cultura, non intende neppure il termine nel suo profondo significato.

Sogno una Costituzione in cui all’art.1 fosse scritto “L’Italia è una Repubblica fondata sulla cultura. Il primo dovere di ogni governo è far progredire in civiltà il popolo”. Di fatto la cultura nel paese è rimasta talmente bassa che, da non credere, con le stesse promesse elettorali Berlusconi ha recuperato a sé gran parte del suo popolo. Con sorpresa di tutti. Ma come potete pensare che il suo elettorato fosse cambiato? L’ignoranza di chi ragione con la pancia non è cambiata e allora? Il venditore è tornato a vendere lo stesso aspirapolvere alla stessa gente.

Inutile parlare al PD di valori della sinistra, non capirebbe neppure di che si stia parlando, si è fissato sull’economia e sul lavoro solo in termini economici trascurando il capitolo più importante quello dei diritti e della dignità, della sicurezza e della serenità del lavoro, esponendo i lavoratori al ricatto, accettare qualsiasi lavoro pur di avere un lavoro. L’errore sempre lo stesso, prima il posto e poi i diritti. Ha menzionato l’art.18 quasi si trattasse di un falso problema. Da non credere.

Ha accettato la “concertazione” come logica della responsabilità. Lui come Monti pensa all’Italia io penso agli Italiani. Un operaio, Giuseppe Burgarella, si è ucciso citando l’art.1 della Costituzione. Domani sarà un eroe. Bersani, lui come altri, neanche una parola.

Di fatto Berlusconi ha perso, è passato dal 37% al 25% ma anche Bersani ha perso e ha soprattutto perso perché spaccato in due il popolo della sinistra non ha saputo parlare al cuore degli italiani affinché gli italiani usassero la testa e non la pancia. Un compito arduo che La Quercia- Pds-Ulivo-Pd, anziché cambiar nome, avrebbe dovuto iniziare quarant’anni fa per rendere il vino più genuino e non per annacquarlo.  Solo la cultura ci salverà.

 

 




Alcuni tabu nella coscienza degli italiani.

UnknownL’apertura dell’uomo di fronte al mondo si misura attraverso la sua ricerca della verità. Una verità che esiste e che si colloca nel futuro. Nel presente che ci contiene possiamo riconoscere la verità del passato. Ma come comprenderla?  La condizione preliminare risiede nelle armi della critica: combattere i luoghi comuni, incrinare le certezze, riscoprire i significati e infrangere i tabu del pensiero che limitano le nostre buone intenzioni e oscurano le nostre visioni. Dobbiamo smaltire il cumulo di menzogne e di parziali verità che deturpano la cultura e compromettono l’evoluzione del nostro paese.  Si tratta di cliché che si radicano nelle menti, in modo a volte irreversibile, indicandoci veri e propri tabu per la coscienza nazionale. Per liberarci da questi tabu dobbiamo allora combattere tutte le ideologie ovunque esse si annidano, ovvero combattere l’ ideologia  tout court, quella “scienza delle idee e delle sensazioni” che sebbene inizialmente fondata su una verità parziale si irrigidisce poi in forma assoluta, travisando od occultando il suo nucleo originario di verità.

L’esistenza stessa di una identità italiana viene da molti osservatori messa in discussione, per il distacco che la popolazione vive nei confronti dello Stato e per le differenze nei valori e nei comportamenti che si manifestano tra nord e sud.  Questa identità (da molti confusa con ‘il comune sentire’)  vacilla perchè si fonda su una visione storica e culturale delle proprie origini che è lacunosa e discontinua. Interi periodi storici di durata secolare e di rilievo europeo e mondiale non vengono sufficientemente compresi e memorizzati per essere quindi assimilati dalla nostra coscienza. Non è sufficiente che facciano parte dei programmi scolastici di storia, questi periodi storici  finiscono con il costituire residui mnestici, pensieri che vengono al contrario rimossi dalla nostra coscienza, in quanto considerati culturalmente inaccettabili e intollerabili, la cui presenza rischierebbe di provocare un’instabilità ideologica. Nei confronti di questi eventi così censurati si viene a costituire una sorta di tabu, una forte interdizione che si sviluppa verso queste aree della nostra storia quasi che avessero assunto una valenza di sacralità o proibizione.

Ho qui voluto selezionare tre esempi di tabu nazionali che dimenticati offuscano la nostra memoria impedendo di riconoscere nella storia della nostra penisola (territorio di invasioni, insediamenti e poteri stranieri per 15 secoli) la cultura come la principale delle nostre commodities  su cui rifondare un nostro nuovo rinascimento. Si tratta di tre eventi storici distanziati fra loro ma distribuiti nell’arco di un millennio: il Regno di Sicilia, la  Repubblica di Venezia e la Riforma Protestante.

IL REGNO DI SICILIA

Viene considerato come “il primo modello dello stato moderno in Europa” e per un secolo e mezzo fu lo Stato più progredito d’Europa accanto al regno inglese.  Le sue origini Normanne e poi Sveve determinarono in particolare la nascita di uno Stato centralizzato, burocratico, efficiente e tendenzialmente livellatore, caratteristiche che gli storici hanno reputato moderne e che hanno anticipato di secoli la costituzione dello Stato moderno nei paesi europei.

L’introduzione delle Constitutiones Augustales (note anche come Costituzioni di Melfi ), codice legislativo del Regno di Sicilia fondato sul diritto romano e normanno, la costituzione della prima universitas studiorum statale e laica della storia d’Occidente per la formazione dei funzionari del suo governo, sono tra gli altri aspetti due singolarità introdotte nella storia del nostro paese da Federico II,  lo stupor mundi  il cui regno  fu principalmente caratterizzato da una forte attività legislativa e di innovazione artistica e culturale, volte ad unificare le terre e i popoli.

“Egli stesso fu un apprezzabile letterato, convinto protettore di artisti e studiosi. La sua corte fu luogo di incontro fra le culture greca, latina, araba ed ebraica. Uomo di straordinaria cultura ed energia, stabilì in Sicilia e nell’Italia meridionale un qualcosa molto somigliante a un moderno regno governato centralmente con una burocrazia efficiente.  Federcio II parlava sei lingue (latino, siciliano, tedesco, francese,greco e arabo) e giocò un ruolo importante nel promuovere la letteratura attraverso la Scuola Siciliana della poesia. La sua corte siciliana reale a Palermo, dal 1220 circa sino alla sua morte, ha visto il primo utilizzo di una forma letteraria di una lingua romanza, il siciliano. La poesia che veniva prodotta dalla scuola ha avuto una notevole influenza sulla letteratura e su quella che sarebbe diventata la moderna lingua italiana. La scuola e la sua poesia furono salutate da Dante e dai suoi contemporanei e anticipò di almeno un secolo l’uso dell’idioma toscano come lingua d’elite letteraria d’Italia.”

I perenni contrasti con il Papato che connotarono la politica di Federico II per tutto il suo regno, perché non aveva adempito ai patti di tenere separati Impero e Regno di Sicilia, perché non rispettava la libertà del clero nei suoi territori intromettendosi sistematicamente nell’elezione dei vescovi e perché non partiva per la crociata (durante la fallimentare crociata del 1217-1221 – la quinta – Federico si era ben guardato da aiutare i crociati, avendo più a cuore la pace con il sultano d’Egitto i cui territori erano così vicini alla Sicilia e con il quale era in rapporti di amicizia diplomatica) furono la reale causa del progressivo declino e della fine.

Le vestigia di questo regno oggi sparpagliate nelle regioni del sud, tra la Campania, la Puglia, la Basilicata e la Sicilia, potrebbero da sole, senza nulla togliere alle bellezze naturali delle loro terre e dei loro mari, costituire mete turistiche culturali tra le più prestigiose d’Europa e itinerari storici da offrire al mondo e alle scuole per la formazione dell’identità culturale delle giovani generazioni, sia italiane che europee.

LA REPUBBLICA DI VENEZIA.

Il Leone di san Marco è uno dei simboli più diffusi e più noti in Italia. Presente come statua  nelle piazze e palazzi storici di molte città del nord-est, come effigie sulle bandiere della marina italiana, mercantile e militare, come simbolo del Comune della Provincia e della Regione Veneto, lo abbiamo ammirato in mille occasioni. Eppure non abbiamo la consapevolezza che esso è lì a ricordarci la florida e potente Repubblica che dal IX al XVIII secolo è esistita e prosperata nella nostra penisola: la Serenissima Repubblica di Venezia  durata mille anni, quasi quanto è durata l’antica Roma.

Francesco Petrarca così la descriveva in una sua lettera del 1321:  « […] quale Città unico albergo ai giorni nostri di libertà, di giustizia, di pace, unico rifugio dei buoni e solo porto a cui, sbattute per ogni dove dalla tirannia e dalla guerra, possono riparare a salvezza le navi degli uomini che cercano di condurre tranquilla la vita: Città ricca d’oro ma più di nominanza, potente di forze ma più di virtù, sopra saldi marmi fondata ma sopra più solide basi di civile concordia ferma ed immobile e, meglio che dal mare ond’è cinta, dalla prudente sapienza de’ figli suoi munita e fatta sicura »

Oggi noi la ricordiamo per lo più per essere stata la grande potenza mercantile  dei commerci con l’oriente, ma in realtà la Repubblica di Venezia ha rappresentato un modello avanzato ed efficiente di organizzazione dello Stato: per una certa sovranità riconosciuta al popolo, per un’articolazione delle istituzioni  di governo che prefigurava la divisione dei poteri, per un’amministrazione equilibrata della giustizia che le fece meritare il titolo di Serenissima.  

L’amministrazione della giustizia si basava su un ridotto ruolo degli avvocati, su giudici non di carriera (aristocratici nominati per 1 o 2 anni, anche nelle alte gerarchie), e soprattutto per il modo di applicare le leggi al singolo caso concreto, che teneva conto delle decisioni precedenti (giurisprudenza) ma soprattutto mirava a realizzare la giustizia sostanziale, anche negando l’applicabilità di certe leggi se queste ledevano i principi superiori di giustizia, ossia la verità, il buon senso, la fede e l’equilibrio naturale delle cose.

Il potere era distribuito all’interno di classi sociali ben definite, ma con caratteristiche assai moderne:  il patriziato  (L’aristocrazia veneziana era una categoria sociale relativamente aperta: ad essa si poteva accedere per grandi meriti e servigi offerti alla Repubblica. In pochi casi, per rimpinguare le finanze in tempo di guerra, la Repubblica vendette l’iscrizione al “libro d’oro” dell’aristocrazia. L’aristocrazia non era solo una classe di privilegiati, ma anche di servitori professionisti dello Stato, educati nell’università di Padova. Infatti i nobili veneziani lavoravano nell’amministrazione anche come segretari di ufficio, contabili, capitani di porto, e anche giudici. Per impedire il concentrarsi del potere in poche mani, garantire un certo ricambio e consentire al maggior numero di aristocratici di avere un impiego, tutte queste cariche erano di breve durata, spesso di un solo anno. Erano spesso mal pagate, tanto che molti nobili sopravvivevano grazie all’assistenza pubblica per gli aristocratici poveri);  i cittadini (distinti tra i cittadini nativi da famiglie veneziane, cioè di coloro che godevano della piena cittadinanza ed avevano accesso alle cariche riservate al corpo sociale dei cives, i cittadini di “dentro e fuori”, cioè i nuovi arrivati che godevano però della piena cittadinanza e della garanzia dello Stato sia dentro che fuori dai confini ed infine i cittadini di “solo dentro”, cioè di coloro che erano garantiti dallo Stato nel proprio territorio, ma non potevano accedere ai privilegi riservati ai Veneziani fuori dai confini);  e i foresti (gli stranieri di passaggio o recentemente inurbati o appartenenti al basso popolino: accedevano alle garanzie legali, ma non ai privilegi di cittadinanza, e la loro presenza doveva essere regolarmente registrata e sorvegliata).

Oltre ai fattori economici e militari che a partire dal XV secolo determinarono il declino e quindi la caduta della Repubblica di Venezia, compressa tra l’espansione dell’impero ottamano e le rivalità con gli spagnoli, i francesi e gli austriaci, ve ne sono altri che a mio avviso possono spiegarci le ragioni della rimozione di questa eredità storico-culturale che perdura tutt’oggi.  I tratti di spiccata indipendenza e soprattutto di laicità, come oggi potremmo definirla,  dell’assetto di questo Stato costituiscono le due caratteristiche della Repubblica che la Chiesa di Roma, ovvero i suoi Papi, non avevano mai potuto accettare. Infatti, nel quadro del predominio spagnolo in Italia, solo l’antica e potente Repubblica di Venezia era riuscita a conservare una certa autonomia, mantenendo anche rapporti politici ed economici con l’Europa protestante. Come testimonia la guerra dell’Interdetto, che ebbe inizio e pretesto con l’arresto ordinato nel 1606 dalla magistratura veneziana di allora di due preti accusati di reati comuni. Il rifiuto da parte delle autorità veneziane di riconoscere che il clero potesse avvalersi, costituendosi come corpo a sé, di un suo diritto e suoi tribunali  scatenò l’immediata reazione del Papato.

LA RIFORMA PROTESTANTE.

La divisione tra laici e cattolici come oggi viene rappresentata, nel timore di dividere una popolazione prevalentemente cattolica, è una finzione ideologica: la divisione non sta nella fede, ma nell’etica. Nel nostro paese  è difficile affrontare  una tematica che comprenda la componente religiosa senza ricadere nel facile errore di  promuovere crociate o di assumere posizioni integraliste o fondamentaliste.  Siamo alla presenza di un tabu nazionale ancora infrangibile. Come si manifesta il tabu? Attraverso la  constatazione che  nelle analisi e dibattiti  culturali o politici si tende a confondere  il “cattolicesimo” con il “cristianesimo”. E’ quasi un lapsus verbale: nell’esposizione degli argomenti si passa indifferentemente dall’uso del termine cattolico a quello di cristiano, come se fossero equivalenti. Politici, teologi, sacerdoti, intellettuali, opinionisti vari nel sostenere i propri principi e valori sembrano non avvertano  la necessità di distinguere tra i due termini, che rimandano a concezioni tanto diverse. Come se cinque secoli fa nel continente europeo non fosse avvenuta quella Riforma Protestante che ha costituito, comunque la  s’intenda,  una  svolta  selettiva culturale che ha indotto una vera e propria mutazione  nell’evoluzione  del mondo occidentale. Si rimuovono cinque secoli di storia durante i quali  buona parte della cultura europea ha assimilato, sia pure con varie modalità e contraddizioni, i principi e i valori della Riforma Protestante, mentre in Italia si è affermata una cultura  della Controriforma, chiusa ed involutiva.

Prima in Europa  poi nell’America del Nord, l’etica protestante  ha contribuito a liberare le forze propulsive di una intraprendente classe borghese, costruendo l’unità  delle istituzioni tanto  negli Stati federali come negli Stati centrali, mentre  in Italia, già frammentata dalla frequentazione secolare di invasori, ancora oggi si fatica a riconoscerne l’unità.  Se ieri i Piemontesi  si sono imbattuti nella “questione meridionale” e nel conflitto con lo Stato Vaticano, oggi lo Stato Italiano deve affrontare la criminalità organizzata, la corruzione e  l’ingerenza della Chiesa Cattolica nelle vicende politiche e istituzionali.

Prendiamo  dunque atto che noi siamo cattolici (apostolici-romani) prima ancora di essere cristiani. E se è vero che il cristianesimo costituisce uno dei fondamenti della nostra cultura-identità occidentale, è altrettanto vero che il rapporto con l’autorità si presenta a noi italiani in modo perverso e conflittuale, vissuto ed agito non in un rapporto mediato da un ente terzo (il Diritto), ma attraverso l’appartenenza (la famiglia).  Da una parte una cultura che pone l’ individuo in rapporto diretto con il proprio Dio (l’autorità della fede) e in rapporto con i propri simili attraverso l’identificazione e il riconoscimento nello Stato (il Diritto), dall’altra una cultura dove l’individuo si relaziona con Dio attraverso i Dogmi della Chiesa (la fede nell’autorità)  concependo una società come somma di famiglie tendenzialmente autonome che vivono lo Stato come un’entità estranea e oppressiva, dunque ostile.

Perché oggi ci richiamiamo più facilmente alla storia degli antichi Romani, alle Crociate , all’epoca dei Comuni, al Rinascimento, al Risorgimento, all’Unità d’Italia, al Fascismo, alle due Guerre Mondiali e meno, per esempio, al Regno di Sicilia, alla Repubblica di Venezia o alla Riforma Protestante ?

Quando trattiamo di una nostra disfunzione nazionale, e invero sono molte le occasioni per farlo, ci piace paragonarci  ad altri paesi europei o agli Stati Uniti riconoscendoci tutti come cristiani. Ma in realtà siamo mossi dalla motivazione assai poco nobile di trovare facile conforto nel riscontrare che “così fan tutti”, senza rendersi conto che a parità dei valori di riferimento il popolo italiano  mostra comportamenti ben diversi, per esempio, da quello francese, piuttosto che  tedesco,  anglosassone,  scandinavo o  americano. Ne è un esempio il rapporto del cittadino con lo Stato e la gestione della cosa pubblica: la differenza è così  profonda  da non sfuggire nemmeno all’attenzione del  turista distratto dalle novità e differenze. Si tratta della  cultura di un popolo o, per meglio dire, della cultura che fa degli uomini un popolo.

Senza nulla togliere ai principi e valori del cristianesimo, che costituiscono tra altri il fondamento della cultura a cui noi apparteniamo, dobbiamo pure prendere atto che la Chiesa di Roma ha costituito in Italia un fattore di resistenza a quel progresso sociale ed economico che ha caratterizzato molti Stati europei, contribuendo a rendere il nostro Paese ancor oggi, dopo le celebrazioni in sordina a cui abbiamo potuto assistere del 150° dell’Unità d’Italia, un Paese incompiuto.  La formula Peppone vs. Don Camillo è stata una geniale  intuizione cinematografica che  ha ben rappresentato attraverso le maschere della commedia la profonda divisione di un popolo, la  sofferta convivenza di due ideologie totalitarie sullo stesso territorio e dentro le coscienze degli stessi individui.

L’opposizione da parte del potere della Chiesa di Roma contro l’autonomia, l’indipendenza, la laicità e la libertà dai dogmi per la conoscenza e ricerca della verità è stata la vera e profonda ragione che ha causato il declino e la caduta delle avanzate esperienze storiche del Regno di Sicilia e della Repubblica di Venezia,quindi la loro censura e il loro oblio nelle coscienze degli italiani, rendendone ancora oggi difficile il riscatto.

La cultura deve tornare ad essere vivente per renderci liberi e salvarci.




La cucina economica: con la cultura non si mangia.

cucina_economicaL’attenzione della cronaca si è rivolta a due fenomeni che riguardano l’istruzione e la formazione dei giovani. Negli ultimi dieci anni vi è stata una diminuzione delle iscrizioni alle università di 58 mila unità, mentre le iscrizioni alle scuole alberghiere sono aumentate del 35% (30 mila giovani ogni anno). Il primo dato è stato interpretato come una “perdita di attrattiva dell’istruzione”, mentre il secondo come “il nuovo cult dei fornelli”. Tutto questo sembrerebbe sostenere la diffusa credenza, sdoganata da un Ministro dell’Economia di un recente Governo della nostra Repubblica, secondo la quale con la “cultura non si mangia”.Per completare la cornice del quadro così abbozzato aggiungiamo altri due dati: il 19% di tasso di abbandono scolastico  e  il fenomeno dell’analfabetismo di ritorno della popolazione stimato oltre il 70%.  Questo è lo stato culturale del nostro paese.

Vi sono parametri diversi per indicare il declino di un paese, essi possono essere di natura economica, demografica o ambientale e i valori che ne rileviamo  possono giustamente allarmarci. Tuttavia  non ci rendiamo conto che tali valori sia che risultino frutto di analisi storiche o piuttosto siano rilevati nel presente non colgono appieno l’essenza del problema che non risiede tanto in ciò che è stato o in ciò che appare oggi, ma in ciò che potrà essere in futuro.  E quale soggetto è portatore di questa realtà in fieri se non chi oggi rappresenta il futuro ovvero i giovani?  Ebbene sono proprio loro le principali vittime di quei meccanismi economicistici  che sembrano più interessati alla fascia produttiva della popolazione, il cui intervallo d’età varia per altro in funzione dello stato dell’economia e della demografia (disoccupazione e invecchiamento della popolazione).

Che fare? Riequilibrare, attraverso un nuovo patto fra le generazioni giovani-pensionati  (nuovo welfare state), la rappresentanza degli interessi del paese, spostando il baricentro verso le fasce di popolazione più giovane. Gli interventi sono di natura sia legislativa che economica, per esempio: diritto di voto ai minorenni, obbligatorietà degli studi fino a 18 anni, sgravi fiscali per le spese in istruzione e formazione, incentivi per la formazione artigiana, borse di studio per università e prestiti d’onore per l’alta professionalità.

Il futuro, già incerto, appare minaccioso, dunque lo si rimuove arroccandosi nella difesa delle condizioni raggiunte, a volte conquistate per diritto o per merito, nel tentativo di mantenerle. Osserviamo che l’attenzione rivolta dalla nostra società del benessere ai bambini diminuisce  via via che si passa dall’età prescolare alla scuola dell’obbligo, alle scuole superiori, all’università. Diminuisce l’attenzione ed aumentano i costi per le famiglie per la formazione dei giovani in crescita. Una inesorabile decadimento di un welfare state concepito principalmente a favore delle  fasce estreme della distribuzione dell’età, ritenute più deboli.  Dalla culla alla bara, socializzazione e previdenza,e nella terra di mezzo l’abbandono al destino individuale. Tutto questo mentre il potere sia economico che politico persiste nelle mani e nelle menti di una generazione che si pone come principale obiettivo il mantenimento di sè e non come finalità la propria ri-generazione.

Il calo delle iscrizioni universitarie, al di là delle osservazioni di natura tecnica per spiegarlo (calo demografico, crisi economica, riforma università) e al di quà dei confronti con i paesi europei che ci pongono nella coda di tutte le classifiche, ci dovrebbe suggerire una profonda riflessione sullo stato della mentalità, della cultura diffusa nel nostro paese.  Si rinuncia alla istruzione e formazione per privilegiare facili miti spettacolari, oggi lo chef, ieri gli stilisti, i calciatori, le modelle  i manager…

E la cultura non è intrattenimento, non si riduce solo all’arte e allo spettacolo.  Essa è piuttosto spirito e mentalità del popolo di una nazione che riconosce o non riconosce nell’altro i propri e gli altrui diritti: la cultura serve a far crescere in civiltà un popolo, non ad aumentare il Pil.  Alla cultura però si deve essere educati. Le dittature e le religioni si sono sempre particolarmente impegnate nell’educazione dei giovani imponendo la loro ideologia. E così deve essere per le democrazie. Sia per gli antichi greci (la Filosofia) che e gli illuministi (l’Enciclopedia)  la precondizione per il conferimento del potere al popolo è stata che questi acquisisse la conoscenza.  La democrazia è, prima di tutto, conoscenza.  

Ma l’importanza della cultura non è ancora stata compresa né dai politici né dal popolo. La contro-cultura invece, ovvero l’assenza di cultura, minaccia oggi oltre che i diritti civili anche i diritti del lavoro, la vita e la sopravvivenza. Un becero intendimento della cultura da parte dei politici (ricordate l’invito a frasi un panino con la Divina Commedia, offerto da un Ministro dell’Economia di un recente Governo della nostra Repubblica?)  ha affossato ogni possibilità di crescita in un paese in cui si confonde cultura con spettacolo, si censura l’informazione e si condanna la satira. E infatti questa becera insipienza nel disconoscimento della cultura nella sua reale natura è la causa principale dei peggiori mali che hanno afflitto nel passato il nostro paese, molto più e al di là delle tasse e dell’economia.

La cultura andrebbe collocata  al primo posto tra le iniziative politiche. Nessuno tra i sedicenti politici del rinnovamento ha però mai coerentemente parlato né ancora parla di cultura. Eppure il primo dovere di ogni governo dovrebbe essere proprio quello di far crescere in civiltà la nazione. Per un politico per cultura si intende ancora e solo “Arte” e “Spettacolo”. Ben vengano. Ma ancora non si intende quell’educazione dello spirito che fa di un anonimo individuo un cittadino. La crescita culturale è fondamentale per il benessere come per la felicità dei popoli, un fattore per ora in Mente Dei e assente nella nostra Costituzione.  La cultura rende liberi. Solo la cultura ci salverà.

 




La società incivile.

480943_326596260773350_381819418_nUn italiano su due d’accordo con Berlusconi su Mussolini.  In un sondaggio realizzato dall’istituto SWG  alla domanda ‘il fascismo ha avuto ombre ma anche luci: e’ d’accordo?’  il 47% degli intervistati ha risposto di sì. “E’ un dato costante da oltre 15 anni”, commenta Roberto Weber Presidente dell’istituto. Quasi un italiano su due non contesta le dichiarazioni che Silvio Berlusconi ha fatto su Benito Mussolini nel giorno della memoria: questo episodio non dovrebbe dunque danneggiare il Pdl in campagna elettorale.

Dunque Berlusconi, nel suo ventennio dalla scesa in campo nella politica, non soltanto ha sdoganato i nostalgici del fascismo portandoli al governo, ma soprattutto ha liberato le coscienze di una gran parte degli italiani dando voce e legittimità ai sordidi pensieri delle loro pance. In un mese Berlusconi è riuscito a raggiungere quella massa di delusi dalla destra (tasse aumentate) confluiti nel 40%  degli astensionisti e riconquistare la loro fiducia per la medesima destra (restituzione IMU pagata?), erodendo il vantaggio faticosamente acquisito dal PD in un anno di sofferto appoggio al governo tecnico di Monti, fino a minacciare la vittoria stessa del centro-sinistra, non solo al Senato. Onore al merito? Macchè, si tratta ancora una vota della forza che si afferma grazie alla debolezza degli avversari! Il Pdl sono io. Questo ci dice Berlusconi sconfessando senza rimedio ogni velleitaria ambizione di eredità politica da parte di inconsistenti figure di nani e ballerine che bivaccano alla sua corte.

Personalmente oscillo, in una sorta di sindrome psico-politica bipolare, tra il pessimismo della realtà e l’ottimismo della ragione, ma oggi temo meno l’affermazione elettorale monca del centro-sinistra e più l’ingovernabilità che ne potrà derivare e che rischia di portarci ad un nuovo e forse irrimediabile discredito internazionale. Prepariamoci a nuove elezioni per il 2014.

Nel frattempo constatiamo una volta ancora il degrado culturale in cui versa il nostro Paese, dove l’acquisto di un calciatore da parte della squadra di Berlusconi porta più voti di quanti ne toglie l’esternazione della mentalità del suo Presidente. E’ davvero difficile, forse ormai anche inutile, stabilire se sia più grave l’esito del sondaggio o l’osservazione finale sui suoi effetti nella campagna elettorale del Pdl.  Per quelli che bisogna essere ‘realisti e concreti’, quelli che sono ‘uomini del fare’, quelli del ‘voto utile’ (a che?) … suffragia non olent.

 Tutto ciò mi conferma che la ricerca della verità e dell’etica appartiene a quegli spiriti che sanno elevarsi dalle condizioni reali e non è soggetta a opinione. L’eccellenza non può essere democraticamente stabilita, ma deve essere democraticamente ricercata. La cultura deve tornare ad essere vivente per poterci salvare.




Perchè dobbiamo essere a favore di una patrimoniale.

Unknownll volume globale del sistema bancario ‘ombra’ alla fine del 2011 è cresciuto fino a 67 trilioni di dollari (un trilione vale un milione di miliardi). Si tratta di dati ufficiali, peraltro fermi al 2011, dati da tutti acquisiti, accettati e ribaditi, pari a 8 volte il Pil mondiale. Significa che per ogni dollaro prodotto dal lavoro ve ne sono otto inventati dai meccanismi della finanza creativa.

Questa è oggi la misura della speculazione. Quale il risultato?  Le banche sono senza liquidità e rischiano di fallire e noi ancor più delle banche.  Possibile che non ci sia un cane che si chieda dove finiscono i soldi?

Eppure è molto semplice: in tasca ai capitalisti. Gente ricca oltre ogni tollerabile misura che fa fruttare, per definizione senza scrupoli, denaro dal denaro. Pecunia non olet.  Non sono contro i capitali, sono contro i capitalisti. Questa distinzione ormai si impone. Che i capitali servano alla finanza e che la finanza serva alla produzione non ci piove, ma che incalcolabili ricchezze finiscano nelle mani di una oligarchia di burattinai è per usare eufemismi intollerabile.

La redistribuzione del reddito e della ricchezza è la prima necessità per uscire dalla crisi. A livello mondiale. Come?  Con tasse di successione che non consentano di lasciare patrimoni in grado di condizionare la finanza e l’economia degli Stati sovrani. Poche migliaia di persone controllano l’economia e la politica di intere nazioni.  Il loro numero è destinato a ridursi e la loro ricchezza ad aumentare. Con tasse di successione che rendano gli uomini uguali alla nascita per censo e per ricchezza, qualcosa che conferisca un senso concreto a ciò che si vuole intendere quando si afferma che “tutti gli uomini nascono uguali”.

Siamo tutti complici, chi per interesse e chi, cosa forse ancora più grave, per mentalità. Non è certo una colpa essere ricchi, ma solo se la ricchezza viene impiegata a scopi sociali e non per finire a puttane. La saggezza del non res sed modus in rebus  è prorpio una verità il modo e la misura sono tutto.

Pensare globalmente e agire localmente,  la stella polare ci indica la direzione ma poi dobbiamo agire sulla terra. Non si tratta di un tutto e subito, ma di un qui e ora, di muoversi in modo determinato e univoco verso una direzione e questa direzione non può che essere l’uguaglianza patrimoniale. Di considerare buona ogni misura presa da qualsiasi governo solo se si muove nel senso di diminuire la forbice distributiva, in termini non solo di reddito ma anche di ricchezza, di ridurre l’indicibile disparità cui la follia turbo-capitalista ci ha consegnati.

Non lasciamo che si confondano l’equità e la giustizia con l’invidia. La sete di potere da parte della cosidetta ‘economia ombra’ non cesserà mai di tormentare il mondo fino a compromettere irreversibilmente  il destino di tutti noi e dell’intero pianeta. Se tutti noi non ci opporremo con risolutezza sarà la catastrofe. Altro che tramonto dell’occidente, dopo crisi e default dovremo abituarci anche ad ascoltare questa parola.  Solo la cultura ci salverà.